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I due liberalismi

di Vittorio Lussana

In occasione del 150esimo anniversario della nostra unificazione nazionale, si dovrebbe porre con maggior serietà il tema di una riflessione, culturale e ‘dottrinaria’, sul liberalismo italiano, al fine di rifondare una nuova etica nazionale definitivamente affrancata dal ‘fagocitamento’ storico operato, nel nostro Paese, dal fascismo e dal cattolicesimo ‘integrista’. Si tratta di un tema che ha visto un fecondo tentativo di studio nelle opere di due filosofi, in particolare: Benedetto Croce e Giovanni Gentile. Questi due intellettuali, infatti, partendo da un solco critico comune giunsero, attraverso un notevole sforzo speculativo, a delineare due quadri distinti di riferimento del liberalismo italiano decisamente contrapposti tra loro: il primo, cercò di risolvere la questione attraverso una concezione tendente a un graduale superamento delle contraddizioni di fondo poste al singolo individuo dalla vita sociale moderna; il secondo, per mezzo della sua particolare visione ‘idealista’, tentò di fornire uno schema di riferimento che risolvesse il problema della nostra identità culturale alla radice, senza per questo avvicinarsi troppo alle teorie ‘superomistiche’ del singolo individuo che si eleva dalle masse. Gentile, in particolar modo, pur essendo il principale artefice dell’intero ‘corpo culturale’ del regime fascista, non può essere definito un ideologo di estrema destra, bensì un vero e proprio studioso liberale che, seppur venato di misticismi a prima vista tendenzialmente autoritari, potrebbe oggi vedersi ‘riadattato’ sulla base della sua personalissima ricerca di ‘rigenerazione’ di una nostra autentica coscienza collettiva e nazionale. Ciò può essere affermato, ovviamente, intendendo al meglio il tipo di valutazione da fornire agli studi ‘gentiliani’, affinché un simile processo di rielaborazione possa avvenire depurando il pensiero del filosofo di Castelvetrano da quelle contaminazioni ‘formali’ che egli stesso, probabilmente, non si rese conto di favorire. Venendo all’analisi concreta, innanzitutto c’è da dire che Benedetto Croce si era formato, culturalmente, facendo riferimento ad alcuni autori quali il Vico, il De Sanctis, Heghel e il di quest’ultimo ‘discepolo’ in Italia: Bertrando Spaventa. Negli anni tra il 1886 e il 1893, Croce iniziò un profondo rapporto di amicizia con il filosofo morale socialista Antonio Labriola, del quale forte fu, su di lui, l’influenza culturale, almeno in una prima fase. Furono però gli anni successivi al 1895 quelli della sua vera propria esplosione intellettuale e produttiva. Tramite un carteggio con un neolaureato siciliano, Giovanni Gentile, egli sentì il bisogno di approfondire compiutamente l’analisi complessiva della visione marxista, esigenza che lo portò a diventare il primo filosofo italiano a recidere in profondità ogni radice filosofica del comunismo, relegando il ‘materialismo storico’ a un mero livello di metodologia interpretativa della Storia (“Il marxismo è soltanto un buon paio di ‘occhiali’ per leggere il passato”). Croce riconobbe alla filosofia di Marx il merito di aver posto in risalto una chiave di lettura e di interpretazione socioeconomica della Storia colpevolmente trascurata, sino alla metà del XIX secolo, da tutta la cultura storiografica tradizionale. In tal senso, c’è da tener presente che, proprio in quegli anni, se non addirittura con qualche lustro di anticipo, si sarebbe sviluppata, in Europa, la critica sociologica di Max Weber al marxismo, il quale riuscì a ricollocare il capitalismo nel solco di un forte dinamismo etico meno primitivo rispetto alle forme di sfruttamento che, in origine, tale sistema aveva delineato. Un fatto che segnala, storicamente, l’evidenza che, in una fase ancora infantile del capitalismo italiano e nonostante la triste situazione culturale del nostro Paese, certamente non all’avanguardia rispetto alle scuole di pensiero delle altre nazioni europee, studiosi come Croce, Gentile e, immediatamente dopo, Antonio Gramsci, si posero in risalto con un grandioso lavoro di ‘sprovincializzazione’ e di ricostruzione della nostra tradizione culturale nazionale. In ogni caso, tornando all’evoluzione del pensiero di Benedetto Croce, dopo ulteriori studi sul marxismo, affrontati in stretto rapporto con Gentile, egli iniziò a lavorare intorno alle diverse problematiche delle scienze estetiche, mentre attraverso una rivista da lui stesso fondata, ‘la Critica’, cominciò a porsi in evidenza come critico letterario d’eccezione. Negli anni successivi, Croce riuscì inoltre, tramite tre lavori improntati allo studio della logica, della filosofia pratica e della storiografia nel suo complesso, a giungere alla ‘sistematizzazione’ del proprio pensiero filosofico, che egli poi definì: “Una filosofia dello spirito”. In sostanza, tenendo fermo lo storicismo di Vico e confrontandosi serratamente con la visione etica ‘hegheliana’, Croce arrivò a definire un sistema di pensiero volto a dimostrare il carattere ‘spirituale’ della realtà in tutte le sue manifestazioni per mezzo di una assoluta metodologica della storicizzazione. A dire il vero, il filosofo napoletano seppe andar ben oltre queste riassuntive definizioni. Egli, rispetto al sistema ‘hegheliano’, fortemente ‘chiuso’ nella propria concezione etica, pervenne a un concetto di ‘spirito’ in quanto vero e proprio protagonista della realtà, tutta identificabile con la Storia stessa, la quale, a sua volta, si realizza in quanto potere integrale in una ‘immanenza’ priva di residui. Concetto, quest’ultimo, che depurava molto ‘l’heghelismo’ dalle sue numerose ‘incrostazioni’ teologiche. Sempre secondo Croce, inoltre, all’interno della cosiddetta ‘vitalità spirituale’ e accanto alla ‘dialettica degli opposti’, che Heghel aveva recuperato addirittura da Eraclito, si doveva tenere in considerazione un altro concetto essenziale: il ‘nesso dei distinti’. In pratica, nel processo di implicazione ‘circolare’ che caratterizza l’evoluzione e l’attività dello spirito, alcune forme distinte conservano una propria autonomia, senza cioè risolversi necessariamente in una forma di sintesi superiore. Tali ‘forme’ erano quattro: l’arte, la filosofia, l’economia e l’etica, manifestazioni dell’attività teoretica le prime due, di quella pratica, viceversa, le restanti. In sostanza, dall’intuizione estetica della mente, espressione di un’immagine (l’idea), lo spirito addiviene al giudizio logico individuale che, a sua volta, si identifica con la conoscenza storica. Da quest’ultima emerge l’attività pratica – che, in sé, è materia e condizione dell’attività teoretica – sia che essa si manifesti come economia, sia come etica, cioè in quanto disciplina della propria attività sotto l’imperativo di una norma universale. A tale sistema filosofico, Croce aggiunse anche alcuni corollari: nell’estetica, innanzitutto, intuizione ed espressione sono un concetto unico e puro; nella logica, la filosofia subisce una normale riduzione a storiografia per questioni di natura metodologica; nell’economia, infine, il diritto, lo Stato e l’economia stessa finiscono con il prevalere, in base a considerazioni di utilità e di necessità, sul fondamento delle teorizzazioni basate su ‘pseudo-concetti’. Dopo il fascismo, Croce mutò parzialmente la propria concezione della Storia, passando da una teorizzazione giustificatoria di questa all’affermazione dell’obbligo individuale di combattere il male in nome dell’ideale ‘morale’ (che nel Croce storiografo è individuabile in quella che egli stesso definì: “La vera religione della Storia: la libertà”). Passando invece alla concezione filosofica ‘gentiliana’, essa delinea, a causa del lungo rapporto di amicizia con Croce, una serie di forti punti di contatto con il pensiero di quest’ultimo, ma anche una serie di differenze non sottostimabili. Occorre innanzitutto riflettere sulla questione di un Giovanni Gentile in quanto autentico protagonista, sulla colonne de ‘la Critica’, della rivolta culturale italiana contro il positivismo pragmatico imperante negli ultimi decenni del XIX secolo e in favore di un ‘recupero’ di una concezione ‘idealista’ della realtà. Muovendo anch’egli dalla revisione di Heghel, operata in Italia da Bertando Spaventa, il filosofo siciliano operò una serie di rielaborazioni delle maggiori intelligenze della Storia italiana nel suo complesso, fornendo a tale lavoro un contributo di profondo reinquadramento storiografico che il positivismo italiano rischiava, talvolta, di rendere in maniera approssimativa. Di qui, Gentile passò poi alla sistematizzazione elaborata del proprio pensiero. In breve, secondo il filosofo siciliano, tutta la realtà è “atto dello spirito”, ovvero “pensiero pensante”: il passato, la natura e il molteplice in genere risultano essere soltanto “atto decaduto a fatto, pensiero degradato a cosa”. Anche il pensiero ‘gentiliano’, dunque, che in seguito venne sinteticamente definito ‘attualismo’, è sostanzialmente una filosofia dell’immanenza assoluta, poiché al di fuori dell’atto dello spirito nulla esiste realmente e la filosofia stessa non è altro che la vivente autoconsapevolezza dell’atto. In base a ciò, la Storia finisce con l’identificarsi con la filosofia, mentre volontà e sentimenti finiscono con il sovrapporsi perfettamente al pensiero. Tutto il complesso delle norme logiche, giuridiche e morali, così come lo spazio, il tempo e il mondo fisico divengono, pertanto, solamente ‘astrazioni’, che acquistano realtà e concretezza in quanto perennemente riassunti nella vita dell’atto che li pensa. Il protagonista dell’atto è “l’Io trascendente”, di cui i singoli individui non sono che incarnazioni contingenti, astrazioni anch’essi, che si fanno realtà in quanto riassorbiti e risolti nella concretezza dell’unico “Io”. L’attualità dell’Io è la sintesi di una tensione dialettica incessantemente superata in cui il momento della pura soggettività, l’arte, si oppone al momento della pura oggettività: la religione. Arte e religione, dunque, sono ‘inattuali’ e si realizzano praticamente solo nella concretezza dell’atto, il quale è sempre pensiero. Tale visione possiede una serie di interessanti risvolti pedagogici che riducono l’educazione a semplice ‘autoeducazione’ parificando ‘democraticamente’ il momento della docenza con quello dell’apprendimento, mentre, sul fronte politico, nonostante la sua convinta adesione al fascismo, il pensatore siciliano può considerarsi essenzialmente un liberale in senso puro – né autoritario, né tantomeno conservatore – in quanto idealisticamente persuaso dell’inveramento della società civile nello Stato, inteso, quest’ultimo, in quanto ente che si realizza nell’interiorità dell’uomo (ovvero, nell’atto vivente dello spirito). Da ciò non poteva non conseguire la perdita di ogni distinzione fra pubblico e privato, poiché la volontà dello Stato finisce con l’identificarsi nella volontà dell’Io assoluto. Da una simile concezione del liberalismo non discende, tuttavia, un’accezione autoritaria da parte del Gentile, ma più semplicemente una propensione per lo ‘Stato forte’ maggiormente collimante con le esigenze storiche dell’Italia, anche se, a prima vista, decisamente distante dal suo corpo dottrinario di origine. Cercando ora di trarre alcune conclusioni da queste due visioni del liberalismo, quella ‘crociana’ e quella ‘gentiliana’, è bene porre in risalto una questione fondamentale, vera e propria causa primaria dell’acceso confronto culturale che venne a generarsi fra i due pensatori (e che poi sfociò nella nota diatriba intorno al ‘Manifesto degli intellettuali fascisti’, pubblicato su ‘Il Popolo d’Italia’ il 21 aprile 1925): quella dell’opportunismo e della distinzione. Come già detto, ambedue i liberalismi, sia quello di Croce, sia quello di Gentile, sono autentiche filosofie dello ‘spirito’, dello storicismo assoluto e dell’immanenza, ma le conclusioni verso cui i due filosofi si diressero non sono affatto le stesse, poiché, in un certo senso, dove arrivò a ‘parare’ il primo, non andò a finire il secondo. Croce, infatti, mantenendo in vita, attraverso il ‘nesso dei distinti’, lo strumento di analisi della ‘distinzione’, cercò di rendere il proprio sistema parzialmente ‘aperto’ alla messa in discussione di ogni verità individuale raggiunta. Gentile, invece, non chiuse del tutto, ma limitò fortemente la propria visione alla rielaborazione, risultando, tuttavia, maggiormente ‘filosofo della prassi’. Croce, in sostanza, accetta anche l’errore o la distinzione opportunistica e strumentale, semplicemente speculativa, rendendo la propria visione ‘cartesianamente compartecipativa’ riguardo a ogni tipologia dubitativa sul futuro dell’uomo. Gentile, viceversa, compila uno schema perfetto di descrizione della migliore incisione possibile dell’individuo sul presente. In termini di scienza della politica, insomma, non è Croce a risultare più ‘progressista’ rispetto a Gentile. Al contrario, è quest’ultimo a giungere maggiormente vicino a una ricerca effettiva del giusto ‘equilibrio ideale’ fra autorità dello Stato e libertà individuale. Croce, infatti, aveva delineato quattro categorie distinte entro le quali si svilupperebbero le diverse dialettiche della realtà. Ma Gentile non potè fare a meno di notare che l’intenzione di porre come assolute quelle quattro categorie entrava in conflitto con una visione effettivamente realistica del giudizio storico. Se, infatti, Croce continuava a sostenere che ogni genere di giudizio era da considerarsi ‘storico’, Gentile non poteva non sottolineare come proprio il genere di giudizio che formalizzava come definitive le quattro distinte categorie ‘crociane’ fosse destinato a mutare con il mutare delle condizioni storiche medesime. Di conseguenza, non potevano esistere solamente quelle quattro categorie ‘fisse’, ma tante categorie a seconda di quanti mutamenti del giudizio storico si verificano nel corso del tempo. Croce rispose a tale critica rammentando a Gentile la distinzione primigenia e basilare tra pensiero teoretico e azione pratica, secondo cui il giudizio storico delle quattro categorie permarrebbe anche con il mutare della realtà contingente. Ma Gentile, a sua volta, fece notare che, se si vuole essere coerenti, non vi può, né vi dovrebbe essere, distinzione alcuna tra pensiero e azione. Secondo Gentile, insomma, l’unica realtà era quella ‘in atto’. E questa affermazione implicava, per forza di cose, una coincidenza perfetta tra pensiero e realtà, tra ‘pensato’ e azione. Gentile fu, dunque, assai più rigoroso nell’affermare la perfetta coincidenza tra pensiero e realtà. E accusò Croce di risentire di quel retaggio metafisico che imponeva di pensare che il cogito rappresentasse un qualcosa di ben diverso dalla realtà, ovvero che quest’ultima potesse risultare ‘esterna’ o ‘indipendente’ rispetto al pensiero. Gentile affermò la perfetta coincidenza tra ‘pensiero dell’atto’ e realtà pensata; Croce, invece, pur aderendo pienamente, nei suoi presupposti di principio, a tale visione, nel postulare il proprio storicismo si rivelò assai meno ortodosso riguardo al delicatissimo concetto di identità trascendente. Pertanto, dall’analisi di quello che può definirsi il ‘nodo cruciale’ della storia della cultura italiana, quello appunto rappresentato dalla polemica fra Croce e Gentile, in un certo senso non è il primo ad “aver avuto ragione”, bensì il secondo – cosa che i comunisti Antonio Gramsci e, più ancora, Palmiro Togliatti, compresero a fondo – anche se, a prima vista, il teorico siciliano poteva apparire profondamente colluso col regime fascista, misticamente ‘chiuso’ in una forma assai schematizzata di idealismo. Insomma, ciò che possiamo concludere intorno a tale questione è la considerazione di un Benedetto Croce in quanto teorico di una libertà individuale che poteva anche opporsi, cioè ‘sganciarsi’, in ragione della ‘religione della libertà’, dalle logiche e dalle concezioni etiche dello Stato, mentre secondo Gentile la libertà del singolo, pur possedendo una sua fortissima ragion d’essere, doveva compenetrarsi all’interno di un’accezione etica ‘idealmente alta’ dello Stato. (Laici.it)

Presidente dell'associazione culturale 'Phoenix'
Direttore responsabile delle riviste 'Periodico italiano magazine' e 'Confronto Italia'
(editoriale tratto dal numero zero della rivista Periodico italiano magazine, di prossima pubblicazione

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