In punta di fatto, dedicato a una analfabeta: ecco i cinque ‘reati’ a causa dei quali non dovrei scrivere

di Giampiero Mughini

Anche se volessi, non potrei rispondere ai molti di voi che commentano queste mie noterelle, mi rivolgono delle critiche (talvolta sacrosante), mi dicono che la loro opinione è diversa dalla mia. Anche se volessi non potrei rispondervi, perché non faccio parte del social network detto Facebook né di nessun altro. Quanto all' “amicizia”, la vita che ho vissuto di amici me ne ha lasciati pochi pochi e già quelli sono difficilissimi da gestire. E comunque grato a voi che intervenite, che scrivete, che ragionate pro o contro di me.

Tutt'altra cosa l'eventuale “macchina del fango” che qualcuno di voi cerca di far funzionare nei miei confronti. Essere degli analfabeti nel senso di non sapere di che cosa si sta parlando non è un reato, ma non è nemmeno un diritto. Mi riferisco all'intervento di una donna che non conosco a proposito di quell'ultima mia noterella in cui ragionavo della libertà possibile dei giornalisti, che non è mai una libertà assoluta. Lei ha scritto un post in cui si diceva allibita che a una feccia come me si permettesse di scrivere e magari di prendersi “il lusso” di criticare Michele Santoro. La signora riassumeva così la carriera più o meno criminale di cui era fatta la mia vita. Cinque punti, cinque reati. La “militanza politica” nei miei vent'anni; l'aver dato la mia firma quale direttore responsabile di Lotta continua; l'essere stato “radiato” dall'albo dei giornalistii; l'avere scritto sul Foglio di Giuliano Ferrara: e oggi “il collaborare con Feltri”. Messi assieme cinque punti che configurano l'identità di uno cui dovrebbe essere negato lo scrivere articoli e opinioni. Ribatto in punta di fatto.

1) La militanza politica. Nei nostri vent'anni – negli anni Sessanta – eravamo quasi tutti di sinistra, di una sinistra accesa e libertaria. Quella nostra generazione ha cambiato il volto del mondo, più nel bene che nel male. Una nuova musica, una nuova moda, una nuova cultura. Per il resto io non ho mai appartenuto né a un partito né a una fazione. Mai. Votai una volta per il Pci e una volta per il Psiup. Già nel 1969, l'ho scritto più volte nei miei libri, mi ero dimesso dal “Sessantotto”, ossia dalla sua deriva estremistica. Fino al libro che ho pubblicato da Mondarori nel 1987, “Compagni addio”. Un titolo che dice tutto.

2) Direttore responsabile di Lotta continua. O meglio di giornali che provenivano da Lotta continua. L'ho fatto per tre o quattro anni. Ne ho avuto 26 processi e tre condanne; le spese legali me le sono sempre pagate di tasca mia. Spiego all'analfabeta come funzionava. Per poter andare in edicola un giornale deve avere la firma “responsabile” di un giornalista iscritto all'albo: reponsabile innanzi alla legge. Se su quel giornale Tizio scrive delle porcate, il direttore “responsabile” ne risponde innanzi alla legge. Perché i giornali di Lotta continua uscissero, abbiamo offerto la nostra firma Pier Paolo Pasolini, Adele Cambria, Marco Pannella, io e altri. Esattamente come quelli che ho citato, con Lotta continua non avevo niente a che fare: ho detto niente. Non condividevo affatto le loro posizioni, epperò li giudicavo il gruppo più vitale tra quelli sbocciati dalla mia generazione. Non una volta sono entrato nella redazione del loro giornale, un giornale che leggevo raramente. Per andare più nello specifico, ho scritto nel 2010 un libro in cui dico di credere che sia stato un commando di Lotta continua a uccidere il commissario Calabresi, tesi per le quali gli ex LC mi hanno riempito di insulti.

3) Io non sono mai stato “radiato” dall'albo dei giornalisti, un albo cui do la stessa importanza che a una pezza da piedi. E' successo che l'Ordine dei giornalisti del Lazio mi avesse comminato una sospensione di due mesi dall' “attività giornalistica” e questo perché avevo fatto da testimonial di uno spot pubblicitario a favore di una linea di telefonini, argomento su cui mai nella mia vita ho scritto né letto un articolo. Ma io non facevo più attività giornaistica (ossia l'organizzare il lavoro di un giornale e farlo uscire), solo scrivevo articoli. Un diritto costituzionale, che ovviamente ho continuato a esercitare pur dopo la sanzione dell'Ordine. Da loro mi è arrivata una lettera minacciosa alla quale ho risposto che quanto al diritto di scrivere articoli non avevo niente a che vedere con loro e che con dei burocratelli come loro non avrei perso un minuto della mia vita. Ho scritto che mi reputavo “un autore di qualità” e non uno che avesse un numero di tessera di appartenenza a un albo professionale di cui me ne strainfischiavo altamente. E allora mi hanno scritto in due, perché uno solo non ce l'avrebbe fatta. Dato che mi reputavo “un autore di qualità” e non un giornalista, loro mi cancellavano dall'abo. Cosa di cui li ringrazio ancora. Ho così risparmiato i cento ero della quota annua, soldi davvero buttati, e mentre continuo a scrivere un centinaio di articoli l'anno.

4) Il Foglio è uno dei tantissimi giornali cui ho collaborato. Piccolo e denso e raffinato, è stato uno dei più bei giornali italiani degli ultimi anni. Quanto alle posizioni politiche del suo direttore, non sono le mie e non c'è nulla da aggiungere. Se io avessi dovuto scrivere solo su giornali di cui condividevo le posizioni politiche, avrei potuto collaborare solo alle pagine Gialle della Telecom, quelle con l'indirizzo e il numero di telefono di ciascun abbonato.

5) Sono talmente una feccia che “collaboro con Feltri”, magari li ho scritti io gli articoli contro il giornalista cattolico Boffo. Le cose sono un po' diverse, cara analfabeta. E' successo che Vittorio Feltri, fondatore e direttore Libero, mi invitasse a collaborare al suo giornale. Gli dissi, e lui lo sapeva benissimo, che le mie posizioni non erano quelle di Libero. “Certo che lo so, scriverai quello che vorrai e a modo tuo”, mi rispose. Esattamente quello che è successo, prima con Feltri e poi con Maurizio Belpietro. Io che non condivido le posizioni politiche di Libero, scrivo su quel giornale quello che voglio e come voglio. Controllare per credere. Se invece la mia cara analfabeta scoprisse che io magari ho scritto una volta su Libero che la sentenza inflitta alla Fininvest di pagare 560 miioni di euro a Carlo De Benedetti equivale a “una rapina”, ebbene in quel caso la signora avrebbe pieno diritto a dire che sono una feccia.

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