Immigrate che salvano l’Italia

LAVORO E DIRITTI

a cura di rassegna.it

Immigrate che salvano l'Italia

Le imprenditrici straniere sono sempre di più: dinamiche, vivaci, migrano spesso da sole, senza mariti o famiglia. E, anche grazie al microcredito, avviano attività in proprio: ristoranti, negozi, sartorie.

di Paola Simonetti

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Pinyin è minuta ma decisa. Gestisce il suo emporio con una gentilezza piena di determinazione. Parla un italiano sorprendentemente cristallino, mentre i suoi fratelli e suo marito che collaborano con lei ancora stentano a capire le richieste dei clienti. Conosce la collocazione delle migliaia di oggetti in vendita a memoria, raramente si mette a pensare se qualcuno le chiede dove trovare quel che cerca; la clientela rimane sempre sbalordita. Sarà per tutto questo che il suo grande negozio situato in uno dei più popolosi quartieri di Roma, fra l’Eur e Trastevere, è sempre strapieno.

Pinyin, cinese di nascita, è solo uno dei numerosi esempi di quel vivacissimo universo nascente che è l’imprenditoria immigrata al femminile nel nostro paese. Cresciuto da un dinamismo di contesto, che vede gli immigrati in generale particolarmente attivi nell’impresa autonoma capace di surclassare quella italiana (+9,2% dal 2008 al 2010 secondo un’indagine condotta dalla Fondazione Leone Moressa sulla base dei dati Infocamere), si configura non solo come rappresentativo di un nuovo linguaggio dell’economa straniera, ma anche e soprattutto come paradigma di un cambiamento radicale della situazione socio-culturale dell’immigrazione nel nostro paese.

Nel 2010, stando alle stime della Confederazione dell’artigianato e della piccola e media impresa (Cna), su 213 mila piccole e medie imprese più del 18%, circa 38-39 mila imprese (nel 2009 ammontavano a 32 mila), erano guidate da donne straniere. La maggiore spinta imprenditoriale, stando ai dati Istat, si evidenzia fra le cinesi (16 per cento), le rumene (7,6), le svizzere (7,3) e le marocchine (6,7). Forte anche l’imprenditoria femminile africana, emergente quella asiatica con il Bangladesh, dove sono presenti grandi competenze sull’impresa agricola (i vicini indiani sono, secondo il Cna, abilissimi mungitori).

Le donne straniere sono particolarmente attive nella ristorazione e nel commercio al dettaglio, con settori di spicco legati anche all’artigianato, come ad esempio la riparazione di abiti. La maggior parte ha scelto come regione la Lombardia. Secondo la Camera di commercio di Milano, infatti, al terzo trimestre 2010 le imprese femminili straniere nella provincia di Milano e nella regione sono 10.354, pari all’11,3% sul totale delle aziende in rosa. Complessivamente si rivela significativo il dato che ha visto, in Italia, le imprese femminili africane capaci di reggere meglio di altre alla crisi, secondo il Cna.

Nell’ambito di uno scenario di riferimento già molto consolidato e di vecchia data, cresciuto del 39% tra il 2003 e il 2009 fra marocchini, senegalesi, egiziani, tunisini, nigeriani e algerini, le donne “rivestono un ruolo importante – ha spiegato Giuseppe Bea, responsabile Area internazionale del patronato Epasa-Cna – esentando l’1,29% delle imprese. Spicca il caso della Nigeria: il 53,2% dei proprietari d’impresa in Italia originario del grande paese africano è rappresentato da donne, occupate prevalentemente in attività commerciali. Ma anche le tunisine, le algerine e le marocchine sono numerose: rappresentano infatti il 47,8% delle imprenditrici immigrate in Italia”.

Dunque sembra non essere un caso che lo scorso anno l’imprenditore straniero dell’anno è stato proprio una donna africana: Edith Elise Joamazava, originaria del Madagascar e fondatrice dell’azienda Sa.va, la quale si è aggiudicata il Money Gram Award 2010. Da dodici anni in Italia e madre di quattro figli, l’imprenditrice si occupa del commercio delle spezie di qualità. Ha dato vita a un’impresa di import specializzata nel settore che porta in Italia la pregiata vaniglia bourbon, ma anche cannella, pepe rosa, curcuma. In tutto venticinque tipologie diverse di prodotto che arrivano nei nostri ristoranti, nelle aziende dolciarie, nelle pasticcerie e nelle scuole di cucina. La sua attività è in continua espansione: nel 2009 le vendite sono aumentate del 62,8% e nel 2011 è prevista l’apertura di una nuova sede. “Porterò questo premio in Madagascar – ha dichiarato Edith, dedicando il riconoscimento ai suoi figli –. Sarà uno stimolo in più per tutti per lavorare bene”.

Il fenomeno dell’imprenditoria immigrata femminile è figlio di un cambiamento maturato negli ultimi due decenni, secondo Giuseppe Bea: “Le donne, contrariamente a quanto accadeva in passato, hanno cominciato a migrare da sole, spinte da situazioni sempre più critiche in patria e anche per l’assenza in molti casi dei mariti o degli uomini della famiglia. Nelle difficili realtà d’origine – aggiunge Bea – matura con sempre maggior forza per la donna la disponibilità a spendersi, rischiando in prima persona”.

A dare slancio, poi, ci sono stati anche i ricongiungimenti familiari e i nuovi assetti di vita instauratisi una volta giunti qui, che stanno producendo uno sgretolando lento ma costante di molti tabù legati alla condizione femminile. “I capifamiglia sempre più spesso si avvalgono della collaborazione delle mogli nel lavoro – osserva Bea –, anche per necessità contingenti, legate magari alla crisi”. Ma a fare la differenza ci sono altri fattori determinanti, sovrapponibili alla condizione di tutti gli immigrati imprenditori: temerarietà, coraggio, spirito di abnegazione, grande forza d’animo e, soprattutto, la voglia di riscatto.

“Le immigrate/i imprenditrici/ori ce la fanno, per motivazioni anche socio-antropologiche – spiega il responsabile Area internazionale del patronato Epasa-Cna –: la mortalità delle aziende immigrate è inferiore rispetto a quella italiana, perché chi dopo il proprio percorso migratorio arriva a fare impresa lo fa verso la fine di un cammino faticoso, quando c’è stata la conquista della regolarizzazione. Nell’autonomia, inoltre, il lavoratore vede un percorso di inclusione sociale più forte, la possibilità di una reale ‘cittadinanza’: produrre beni e servizi per una comunità lo fa sentire più partecipe del tessuto sociale di accoglienza; gli autoctoni possono percepire come più visibile l’importanza della sua presenza e del suo contributo. E questo in genere riesce, perché per gli immigrati/e c’è la tendenza a recuperare lavori artigianali che, peraltro, in Italia stanno scomparendo e, dunque, salvano queste professioni dall’estinzione arricchendo i quartieri delle città di servizi che esistevano un tempo. L’altro fattore – prosegue Bea – è anche legato al desiderio di affrancarsi dalla dipendenza per approdare alla libertà lavorativa: la subordinazione li mette spesso in difficoltà, perché vincolati al datore di lavoro per il permesso di soggiorno. L’autonomia scalfisce questa insicurezza”.

Nel caso delle donne, che in Italia svolgono nel lavoro dipendente per lo più mansioni di collaborazione casalinga e cura di anziani e malati, l’incertezza sul futuro può essere ancora più marcata, essendo spesso penalizzate doppiamente come lavoratrici immigrate e come donne. Il lavoro dipendente, però, malgrado gli aspetti negativi che produce, porta con sé anche il seme di un apprendimento che spessissimo viene trasmigrato poi sull’impresa autonoma, arricchito anche da competenze e titoli di studio acquisiti in patria: numerose sono le donne straniere con un alto livello di istruzione. Queste spinte portano, giocoforza, a strutturare meglio l’impresa, a fare il passo con decisione e con la ferma determinazione di non fallire. Gli ostacoli, tuttavia, non mancano. Spesso c’è la non conoscenza della lingua e del mercato, le scarse competenze economiche e, soprattutto, l’imperante difficoltà di accesso al credito: le banche sono sempre più rigide nel concedere mutui e prestiti in linea generale.

“Le difficoltà, però, vengono saltate con una discreta velocità – conclude Bea–: si arrangiano con corsi o attraverso persone che conoscono e che possono dare dritte. E a livello economico a fare la differenza sono i legami di comunità. Soprattutto in quelle più strutturate circola spesso l’autofinanziamento; quasi sempre si attiva un ricco circuito di mutua assistenza, un motore importantissimo per l’autoimprenditorialità”. Molte di loro, però, ormai conoscono le numerose realtà associazionistiche che offrono servizi e consulenza e progetti mirati di formazione, nonché di microcredito, con i quali riuscire a mettere insieme i passi decisivi. E le storie delle donne straniere che ce la fanno si moltiplicano.

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