di Chiara Scattone
Islam e democrazia sono conciliabili? L’islam è un sistema di valori di origine divina, in cui din wa dawla, ovvero religione e Stato, sono elementi inscindibili tra loro. La democrazia è una forma di Stato secondo la quale è la volontà del popolo a essere decisiva per l’esercizio del potere costituito. Nell’idea di democrazia non soggiace alcun elemento che possa rifarsi al sentimento religioso. La democrazia è per sua natura stessa una forma, quantunque anche filosofica, totalmente laica. Il dubbio, la nostra domanda, sarebbe pertanto così saziata. L’islam non può concepire, proprio per la sua duplice veste, religiosa e statuale, una qualsivoglia struttura di potere che non contempli un’essenza divina. Il complesso rapporto esistente tra l’islam e la democrazia o l’idea di rappresentatività del popolo, della maggioranza dei residenti in un determinato Stato, va ricostruito, ripercorrendo alcune tappe essenziali della storia del mondo arabo-islamico e aiutandoci in tale percorso a ritroso con alcuni dei termini arabi più significativi. Alla morte del profeta Muhammad nel 632 d.C. si aprì la questione della successione al potere. Il Profeta incarnava nella sua stessa persona sia l’autorità temporale, era khalifa ovvero capo politico della comunità, sia quella religiosa, in qualità di Inviato di Dio ricopriva anche il ruolo di imam (colui che guida la preghiera). Muhammad non aveva designato formalmente alcun successore e divenne quasi scontato ritenere degni di tale incarico i compagni che fin dall’inizio e più fedelmente avevano seguito l’epopea del Profeta. Il periodo che seguì la morte di Muhammad venne denominato il periodo dei Califfi Ben Guidati, ovvero di coloro che grazie alla vicinanza con il Profeta potevano meglio interpretare alla sua morte il pensiero e l’eredità comportamentale muhammadica. Nel succedersi dei quattro Califfi Ben Guidati una parte della comunità riteneva dovesse essere legittimo nominare quale capo della umma i discendenti diretti in linea maschile del Profeta. La lotta per il potere si scatenò apertamente al momento della morte violenta del terzo califfo, ‘Uthman, avvenuta nel 656. La guerra che ne derivò non si risolse con la vittoria di una delle due fazioni avverse, ma fu causa della prima grande scissione del mondo arabo-islamico: la nascita della corrente sciita (ovvero i seguaci del nipote e genero del Profeta, ‘Ali, che ritenevano la successione dovesse avvenire all’interno della famiglia di Muhammad) e l’instaurazione della prima dinastia sunnita, gli Omayyadi. Ciò che più interessa alla risoluzione del nostro quesito è quello che avvenne nel corso della seconda dinastia che succedette a quella omayyade, la dinastia degli Abbasidi. È stato proprio nel corso dell’impero abbaside che prese corpo quel fenomeno oppressivo di natura giuridico-religiosa che diede avvio a uno dei periodi più oscuri intellettualmente del mondo arabo-islamico. La ta’a, la persecuzione messa in atto dai califfi abbasidi nei confronti della corrente filosofica, religiosa e dottrinale della Mu’tazila. Il ragionamento personale, lo strumento prediletto dell’intelletto umano per la comprensione del mondo e della natura divina delle cose veniva trattato come un’eterodossia, veniva perseguito come contrario ai dettami religiosi. Il simbolo di questa oppressione divenne senz’altro la sentenza di morte inflitta nel 922 al mistico al-Hallaj, il quale venne accusato di eresia poiché aveva pronunciato la frase criminosa: “Io sono la Verità”. Attribuendo a se stesso uno dei 99 appellativi divini. La verità però è che la corrente mu’tazilita, considerata quasi un’eresia sunnita perché scuola di pensiero filosofico e intellettuale, caratterizzata dalla sua sete di conoscenza e di verità della natura divina delle cose, subì una persecuzione feroce da parte di quegli stessi governanti che un tempo avevano ritenuto la conoscenza umana l’unico strumento per la conoscenza divina. L’illuminata dinastia abbaside si trasformò in una dittatura oscurantista, che impose alla religione il percorso obbligato dei desiderata dell’autorità. Tutto quello che si distanziava dai diktat moralisti del potere era contrario al volere di Dio, contrario all’ortodossia sunnita. La riflessione venne messa a bando. La filosofia, spregiativamente denominata con il termine di origine greca falasifa, rappresentava il germe dell’opposizione e dell’autonomia di raziocinio tanto temuta dai governanti abbasidi. I falasafa, i filosofi, così comunemente denominati tutti coloro che utilizzavano il ragionamento come strumento per la conoscenza dell’essenza divina anche in contrapposizione con l’autorità costituita, erano i soggetti cui era indirizzata la follia persecutrice. I filosofi e gli intellettuali liberi vennero condannati come infedeli, come atei. L’utilizzo di un termine straniero per definire il ‘nemico’ dell’ortodossia significava connotare quello stesso soggetto gharib, straniero. La ragione e l’opinione personale divennero imprese “straniere” e pertanto condannate dal regime. Ecco uno dei termini portanti del nostro discorso, gharib. Lo straniero e quindi oscuro, sconosciuto e terrificante, misterioso. Il maghreb, il luogo dell’oscurità, dove il sole tramonta, l’occidente. Gli stessi marocchini proprio per il nome con cui viene indicato il loro Paese (Maghrib) sono da sempre guardati con sospetto e con un velo di scetticismo per la loro ortodossia religiosa, considerata non da tutti i musulmani come totalmente ortodossa, perché ancora legata a tradizioni di origine berbera e contadina, e dunque precedenti l’islamizzazione. Da sempre lo straniero fa paura, incute timore perché rappresenta, incarna qualcosa che non si conosce, che non si comprende. Così, la lingua può aiutare a raffigurare tale sentimento. Nell’ebraico biblico lo straniero veniva identificato con il termine ger, un termine che al suo interno racchiudeva un senso di paura e di non accettazione. Il ger non poteva prendere parte alle attività della comunità, al ger, quasi fosse un nemico, era lecito prestare a interesse. Il ger non avrebbe mai potuto godere dello status di residente. In arabo, lo abbiamo appena visto, il gharib rappresenta non solo lo straniero ma acquisisce una connotazione ancor più geografica indicando precisamente il territorio strano dove tramonta il sole (e dove quindi le cose perdono i loro contorni definiti e illuminati dalla luce del giorno), l’occidente. In greco e in latino lo straniero era il barbaro (barbaros o barbaroi), il balbuziente, colui che non conoscendo la lingua locale stenta nella dialettica. Uno stentare linguistico, cui poco a poco è stata attribuita una connotazione negativa. I barbari erano le popolazioni del nord Europa, violenti e cruenti che saccheggiavano i domini romani e tentavano la conquista dell’Impero. Il gharb dunque, l’occidente oscuro e strano, identifica non solo geograficamente un luogo – lì dove il sole tramonta – ma tende a significare anche la forma di Stato figlia dell’Occidente, la democrazia. Nella democrazia, la volontà del popolo è libertà di pensiero e di espressione, è libertà di ciascun individuo ed è al contempo una libertà che i governanti arabi hanno tradotto con il termine shirk – e non invece con hurriyya, la libertà gioiosa che si ritrova anche nelle forme di Stato come quella libica, la jumhurriyya, ovvero una sorta di democrazia arabo-islamica –, la libertà disinibita e confusionaria dell’epoca preislamica, l’epoca dell’oscurità. Ecco la mistificazione dei governi arabo-islamici, con la consapevole e artificiale trasformazione, agli occhi del loro popolo, della democrazia nel luogo delle libertà selvagge e pagane, dove non regna il monoteismo e l’ordine. Il luogo oscuro che il profeta Muhammad ha sconfitto e dal quale ha liberato le menti degli arabi. E allora la democrazia si trasforma in un ‘nemico’ dal quale rifuggire, pregno com’è della sua religiosità politeista che rammenta alle menti la violenza delle genti di Mecca. Facciamo un passo indietro. Se vogliamo trovare un momento, una data che ha segnato una sorta di frattura sia con il mondo occidentale sia soprattutto all’interno degli Stati arabo-islamici, quella è il 1991. La prima guerra del Golfo, il periodo durante il quale le popolazioni arabo-islamiche hanno compreso due elementi precisi: nessun confine può proteggere dal gharb, dallo straniero; e il mondo arabo-islamico è vulnerabile. La paura e il terrore hanno rischiato di sopraffare le persone, ma allo stesso tempo è stato chiaro che l’unico mezzo per superare quella paura, l’unica reazione possibile era la comprensione di ciò che atterriva. Non dipende dall’Occidente straniero comprendere il mondo arabo-islamico, dipende dal mondo arabo-islamico comprendere l’Occidente. Ed ecco un altro termine utile al nostro ragionamento: qarar la consultazione. Ma anche jadal la discussione, il confronto. Il popolo arabo-islamico ha scoperto nel 1991 di non aver mai avuto accesso alla consultazione. Gli slogan dei manifestanti durante la prima guerra del Golfo gridavano il loro desiderio di democrazia, urlando “Non ci hanno consultato! La decisione è la nostra”. Ed eccola là, la paura che entra nelle stanze del potere. Diviene necessario a questo punto blindare la propria autorità e compiere un’operazione strategica di marketing: mascherare di estraneità la democrazia, farla divenire figlia di quell’oscurità che è il gharib. Trasferire la paura ancestrale dell’Occidente all’idea stessa di democrazia, questo è stato l’escamotage attraverso il quale i governi musulmani sono riusciti a garantirsi per decenni il proprio appannaggio politico. Un sistema questo, che ha ingannato molti. Anche io ne sono stata affascinata. Ripensare alla modernità con gli occhi del passato. Quale romanticismo se interpretato con la sicurezza della visione democratica e occidentale nel cuore. Il ritorno al passato interpretato come chiave di lettura del presente e del futuro non è uno strumento romantico e giuridicamente logico per superare le sfide della modernità, bensì solo il mezzo “politicamente corretto” per coprire con un ulteriore chador il volto della democrazia in fieri. Per alcuni governi, per la maggior parte dei regimi musulmani, si ritiene sia più semplice proteggere i propri interessi se si fa ridiscendere la legittimità su terreni culturali simbolici. Se il culto ancestrale del sacro e del passato divengono l’emblema della giustizia e della liceità del potere, l’autorità del monarca, del capo di governo, del primus inter pares acquisisce la legittimità del governare. La negazione dell’intelletto, la persecuzione del raziocinio operate nel corso della dinastia Abbaside non si sono mai interrotte. Il din wa dawla al servizio del potere costituito. La religione diviene giustificazione e strumento per la soddisfazione degli interessi personali del capo. Se si riveste le azioni e la giustificazione del potere di religiosità, chi potrà mai andare contro il volere di Dio? Chi potrà mai mettere in dubbio che quella stessa scelta non sia stata operata per il tramite della benedizione divina? Ecco come fino a oggi la maggior parte dei governanti arabo-islamici hanno dominato incontrollati sui proprio cittadini/sudditi. La democrazia fa paura perché rappresenta la nuova Mu’tazila, i nuovi filosofi, il risveglio della ragione. Dio non ha mai negato l’utilizzo dell’intelletto umano, “la conoscenza è la più democratica delle fonti del potere”. “Discuti con loro nel modo migliore” (Corano XVI, 125). (Laici.it)