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Da Nord a Sud, come i clan s’impadroniscono delle aziende

di Giovanni Tizian, da lettera43.it

Un business da 24 milioni di euro. Estorsioni e usura rappresentano per le organizzazioni mafiose un affare d’oro. E oltre al guadagno permettono ai clan di controllare il territorio. Di piegarlo ai propri interessi, perché il passaggio successivo è l’acquisizione delle aziende taglieggiate.
In alcune città, come Catania e Reggio Calabria, l’80% di commercianti e imprenditori paga il pizzo. Ma il numero di vittime è in continuo aumento anche al Nord, con una differenza: al Sud gli imprenditori iniziano a ribellarsi.

Il pizzo ha però cambiato fisionomia. Non è più una tassa parassitaria, ma un servizio offerto alle imprese a prezzi concorrenziali. Dal trasporto al recupero crediti, passando per il facchinaggio. Un sistema difficile da scardinare senza denunce.
«I miei colleghi commercianti pagano tutti», ha rivelato un libraio catanese che ha subito diverse minacce. Ma c’è chi al sistema ha scelto di opporsi. Come Roberto Battaglia, imprenditore campano che ha fatto arrestare Luigi Schiavone, il cugino di Francesco Schiavone, il boss dei casalesi detto «Sandokan» condannato all'ergastolo. E Vito Quinci, un siciliano determinato che ha denunciato due consiglieri comunali.

Il 17 luglio 2008, Luigi Schiavone entrò nell’ufficio di Battaglia, titolare di un’azienda agricola e di un caseificio, a Caiazzo e a Capua, nel casertano. Gli investigatori, d’accordo con l’imprenditore, lo attendevano, nascosti. Poche parole, alcuni gesti, e per il mafioso scattarono le manette.
Schiavone è il cugino di primo grado di «Sandokan». È una stirpe che fa tremare commercianti e imprenditori – del Nord e del Sud -, quella degli Schiavone.
«Si somigliano anche fisicamente», racconta Battaglia, «il giorno dell’arresto, il camorrista aveva con sé oltre 300 mila euro: 200 mila che mi aveva chiesto e 100 mila in contanti e assegni estorti ad altri imprenditori».
Il primo contatto tra l’imprenditore casertano e il cugino di «Sandokan» è datato maggio 2008. Schiavone si presentò come rappresentante degli usurai, adirati con Battaglia che aveva deciso di chiudere con i prestiti.
«Schiavone mi volle incontrare per convincermi a rivedere la mia scelta. Saldai tutti i debiti, ma il clan voleva a tutti i costi la mia azienda», ricorda l'imprenditore, «mi mandavano continuamente degli emissari e alla fine fissammo una rata unica: metà per il clan e il resto per gli usurai».
L'usura, infatti, va a braccetto con la camorra. Il clan ricicla i soldi dell’usura in cambio del servizio di recupero crediti. «Offre la propria forza di intimidazione per recuperare i soldi degli imprenditori che non hanno pagato e soprattutto tenta di impadronirsi delle imprese pulite per riciclare il denaro», spiega Battaglia, «gli usurai, autorizzati dalla camorra, sono insospettabili. I miei erano infermieri».

Gli infermieri usurai e i truffatori che gestivano un giro di frodi assicurative riuscivano a recuperare ogni settimana milioni di lire dal Fondo per le vittime della strada grazie a avvocati, medici e periti corrotti. E il denaro era poi investito nell’usura con l’appoggio del clan, per il quale si trasformavano anche in prestanome delle aziende acquisite dalla camorra.
«Come rappresentante di 'Sos impresa' voglio essere un riferimento per le altre vittime: le mie testimonianze hanno salvato decine di persone dall'usura. Camorristi e usurai sono stati rinviati a giudizio, ma il processo ancora non è iniziato» dice Battaglia. Quelli che l'hanno costretto alla denuncia, attendono infatti il processo in stato di libertà. E anche Luigi Schiavone è libero: «Ho ricevuto diverse minacce, ma adesso ho una protezione 'morbida': ogni giorno sono in contatto con le forze dell’ordine».

«Quando un imprenditore denuncia non ha neppure il pane da portare a casa», continua, amareggiato, l'imprenditore casertano. Chi denuncia, infatti, si trova ad affrontare situazioni debitorie critiche. «Avevo debiti con le banche, che non collaborano e chiudono i fidi. Era diventato impossibile andare avanti: non riuscivo più a trovare operai e le assicurazioni non mi assicuravano più i mezzi. Si dovrebbe essere agevolati, invece diventa tutto più difficile. Non è possibile limitare a 300 giorni la sospensiva di tutte le procedure civili e i debiti per chi denuncia (prevista dall’articolo 20 della legge 44/99, ndr). La burocrazia è lenta. E l’impresa muore».
Battaglia è riuscito a entrare nel fondo per le vittime dell’usura. Ma ha perso milioni di euro. Gli usurai gli hanno sottratto anche la cappella di famiglia. E gli hanno imposto di pagare l’affitto su immobili si sua proprietà.

Il coraggio di cambiare fa parte anche della storia di Vito Quinci imprenditore di Mazara del Vallo, provincia di Trapani, che nel 2000 decise di investire a Campobello di Mazara. Un’area che vive di turismo. Mare cristallino, dune di sabbia dorata, strutture arabeggianti, è il lato visibile. Quello celato, oscuro, invisibile ha il volto del superlatitante Matteo Messina Denaro.
«Qui non puoi fare niente se non paghi», spiega Quinci, «non digeriscono che si faccia impresa». E per lavorare, l'imprenditore ha dovuto pagare gli addetti che rilasciavano le concessioni.
«Nel 2009, incontrai due consiglieri comunali e chiesi uno sconto sulla mazzetta richiesta», ricorda Quinci, «invece di 20 mila euro, proposi 5 mila». La risposta dei consiglieri fu chiara: «Che ci facciamo con 5 mila euro? Siamo in cinque, ci bastano appena per una cena».
Ma a gennaio 2010, dopo il rifiuto di accettare lo sconto proposto, Quinci ha denunciato «e qualche mese dopo la guardia di finanza ha arrestato i due consiglieri di Campobello».
Ma la piccola vittoria dell'imprenditore si è presto trasformata in un incubo. La prefettura e il tribunale di Mazzara si sono accordati per congelare le procedure civili e i debiti di denuncia, ma il tribunale civile ha dichiarato fallite le due società dell'imprenditore, coinvolto in una causa con i fornitori.
La motivazione: «Secondo il giudice non è stata specificata la data di inizio delle estorsioni». Quinci ha fatto ricorso, ma nell'udienza del 20 maggio 2011 un nuovo intoppo: «Alla richiesta di trattare i casi delle due società nella stessa giornata, il giudice ha risposto che non aveva tutte le carte e ha rinviato il procedimento al 2012. Intanto, però, il fallimento prosegue e le villette che ho costruito con una delle mie società sono rimaste invendute».

Se avesse accettato di pagare, oggi sarebbe un imprenditore avviato. Invece ha preferito denunciare e ha visto fallire le sue società. «Se avessi pagato non avrei dovuto affrontare questa situazione», lo sfogo di Quinci, «né la banca, né i mafiosi sono riusciti a farmi fallire, lo ha fatto il tribunale, non riconoscendomi le agevolazioni previste in caso di racket e usura».
Quinci ha definito il suo percorso come «un calvario». Denunciare dovrebbe essere vantaggioso per l'imprenditore, perché «non è possibile trasformare il coraggio in disperazione».
Nel 2009 l’imprenditore siciliano ha anche denunciato il Banco di Sicilia. «Li ho citati in giudizio per 40 milioni di euro, hanno ritirato un finanziamento e sono rimasto a terra».
Quinci è amareggiato soprattutto perché ha creduto di potere rilanciare il territorio attraverso un progetto «che a pieno regime avrebbe fatto lavorare 1.000 persone». E in una ragione dove la disoccupazione ha raggiunti livelli record e la mafia è alla costante ricerca di affiliati, non sarebbero stati affatto pochi.

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