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Sprechi alimentari, un’iniqua distribuzione delle risorse in un mondo indifferente

Uno studio della Fao evidenzia che ben 1,3 miliardi di tonnellate di cibo, un terzo della produzione mondiale, finiscono nei cassonetti. In Italia una parte viene salvata dal Banco Alimentare ma bisogna fare di più

Una recente indagine commissionata dalla Fao sullo spreco del cibo ha dato risultati a dir poco scioccanti: ogni anno, infatti, 1,3 miliardi di tonnellate di cibo ovvero circa un terzo della produzione mondiale va perduto o sprecato. Di queste 670milioni di tonnellate finiscono nell’immondizia dei paesi industrializzati e ben 630 milioni nei paesi in via di sviluppo.
L’allarme lanciato dallo studio commissionato in occasione del congresso mondiale “Save the Food!”, che si è tenuto in Germania a Dusseldorf il 16 e il 17 maggio ha messo in evidenza altri impressionanti dati. Fra questi, è da rilevare la quantità di cibo che i consumatori dei paesi ricchi sprecano, 222 milioni di tonnellate, che è pari all'intera produzione alimentare netta dell'Africa sub-sahariana, circa 230 milioni.
Secondo la ricerca, frutta, verdura, radici e tuberi, sono gli alimenti che vengono maggiormente sprecati.
Due le ragioni principali dello spreco: per quanto riguarda i paesi in via di sviluppo si parla soprattutto di “perdita” a causa delle infrastrutture carenti, delle tecnologie obsolete e della mancanza di investimenti mentre per quel che concerne i paesi industrializzati si può parlare di “spreco” ovvero di cibo ancora consumabile che viene gettato nella spazzatura.
Ma veniamo alle cifre pro capite. In Europa ed in Nord America il cibo buttato è pari a 95-115 kg all'anno, mentre nell’ Africa sub-sahariana e nel sudest asiatico è di 6-11 kg l'anno.
Da qualche tempo, però nel mondo si sta attivando qualche procedura virtuosa per ridurre lo “spreco”. Attraverso la creazione di vere e proprie “Food Banks” parte del cibo che potrebbe essere gettato, infatti, viene “salvato” per essere riutilizzato per scopi sociali, ovvero per dar da mangiare a chi il cibo non può permetterselo.
Secondo Giovanni D’Agata, componente del Dipartimento Tematico Nazionale “Tutela del Consumatore” di Italia dei Valori e fondatore dello “Sportello dei Diritti” è evidente che per invertire la rotta non sono sufficienti tali iniziative, che seppur apprezzabili e necessarie, sono esclusivamente determinate da logiche solidaristiche e caritatevoli e non riescono per la loro stessa natura a ridurre il fenomeno alla fonte. È chiaro e improcrastinabile, invece, un mutamento epocale culturale nella mentalità dei consumatori attraverso un aumento della consapevolezza di tutti i cittadini. Certo, nella civiltà dei consumi è difficile, ma poche misure quotidiane e maggiore attenzione e parsimonia negli acquisti da parte di tutti potrebbero veramente invertire questa pericolosa tendenza.

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