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Massimo Ottolenghi: “Siate anche voi partigiani!”

Un appello per un nuovo Risorgimento e una nuova Liberazione contro il Regime. E' il discorso tenuto a Torino il 21 aprile 2011 in occasione del centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia da Massimo Ottolenghi, ex partigiano classe 1915. Un simbolo della resistenza civile che oggi, come Stéphane Hessel in Francia, rilancia la sua indignazione con un appassionato pamphlet, “Ribellarsi è giusto”, edito da Chiarelettere.

di Massimo Ottolenghi

Cari amici,
scusate la confidenza, ma il solo fatto che ci si ritrovi in questa importante occasione, affollati in questa nostra amata piazza, per ricordare insieme il 25 aprile e il centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia, significa una comunanza di sentire e di pensare che ci affratella in un grande abbraccio.

Ringrazio le autorità convenute, in particolare il nostro primo cittadino Sergio Chiamparino, per essere qui con noi e soprattutto per aver saputo dare un volto nuovo alla nostra città, per averle restituito un sorriso di speranza in un periodo di triste e penosa decadenza del nostro Paese.
Ringrazio per l’onore fattomi nel delegarmi a parlare a voi tutti come testimone e resistente.

Spero che chi mi ha designato non abbia a pentirsi d’aver scelto un vecchio testardo rimasto resistente anche nell’oggi. Un democratico in servizio permanente effettivo fino all’ultimo. Un democratico che crede ancora nella libertà, nella giustizia, nell’uguaglianza, nella continuità e consequenzialità della storia; della storia che va sempre rivisitata e tenuta presente, nella sua perenne attualità, e che va rielaborata nella profondità delle nostre coscienze per salvare un futuro per i giovani.

Sento la responsabilità di parlarvi in un momento in cui i cittadini del nostro Paese dovrebbero riprendere in mano la situazione e per questo occorre riandare al passato.
Il 25 aprile è il giorno che segna la fine del furore, la fine del peggior incubo della nostra storia.
È il giorno della resurrezione. Avrebbe dovuto essere il momento della «Democratizzazione! e Defascistizzazione!», secondo la parola d’ordine, per operai e partigiani insorti, scritta nei primi manifestini diffusi quel giorno per la città.

Pur nello svanire dei ricordi, le immagini di quei giorni in me sono vive. Anche se non hanno più la stessa forza delle emozioni, del lezzo di morte, del profumo della vita ritrovata a un tempo, che si respirava allora, dovunque tra le macerie di questa città sofferta.

Ricordi indimenticabili:
– l’urlo che si alza alto, incontrollato, improvviso nella notte, alle 24 del 24 aprile;
– quelle parole «Aldo dice 24×1», pronunciate dalla voce stenta e gracchiata di un vecchio apparecchio radio di fortuna. Il messaggio tanto atteso, in codice, dell’insurrezione generale.

Ora toccava a noi. Poi quei brevi flash in punti diversi della nostra città, sullo sfondo di macerie bruciate o di bagliori sinistri nelle ore notturne:
– due panzer tedeschi sparavano d’infilata, sferragliando per i viali della Crocetta, distaccandosi dal quadrilatero formato intorno ai Grandi comandi per cercare di forare l’assedio delle fabbriche, ormai saldamente in mano agli operai, alla periferia della città;
– un automezzo militare tedesco, sotto un palo divelto e un groviglio di fili dell’Azienda tramviaria con quattro corpi riversi di SS tedesche, in fiamme all’angolo di piazza Solferino con via Santa Teresa; spari di cecchini appiattiti tra le macerie del Teatro Alfieri e sul tetto della casa d’angolo di via Cernaia;
– i volti dapprima terrorizzati e poi sbalorditi e timorosi di due militari tedeschi, da noi catturati, ancora intenti a far bottino nella casa di un mio familiare prima di fuggire in automobile;
– una motocicletta a fari spenti nella notte, fra gli spari di cecchini, con Giovanni Trovati, futuro vicedirettore de «La Stampa», alla guida per raggiungere la tipografia in via Roma.

* * *

Soltanto il 28 mattina, dopo aspri combattimenti al Ponte della Gran Madre e in zona Crimea, fu possibile, alla Brigata Superga «Bruno Balbis» del gruppo Giustizia e Libertà, proveniente da Pino, irrompere in profondità, sino a giungere in questa piazza, occupare il palazzo della Prefettura e infiltrarsi in via Roma.

Sotto la Galleria San Federico un grande abbraccio: giovani esultanti, sconvolti e stremati della Brigata mobile di Carlo Mussa. Alla sede del giornale Mario Andreis, Sandro Galante Garrone, Pierdomenico Cosmo, Ettore Sisto e un tumulto di volti amici e sconosciuti. Poi l’odore caldo del piombo liquido delle linotype.

Fra le urla e la calca si stampava il messaggio per la città che doveva uscire subito, il n.1 di «GL», il nostro futuro giornale.
Solo il n. 2, di domenica 29 aprile, sarebbe stato un vero giornale, se pur ridotto a un solo foglio, con una grande GL al centro e due facciate fitte di notizie di portata storica. Un giornale finalmente libero e di tutti.

Da ogni parte correva la gente strappandosi quel foglio dalle mani. Non occorreva una distribuzione.
In prima pagina di spalla il titolo dell’articolo di fondo: «Rivoluzione democratica». Mentre fuori si sparava ancora, quel foglio avrebbe portato a tutti parole di speranza.

* * *

Da quel momento tutti tornavamo a essere liberi, uguali, senza angosce, senza padroni. Tutti cittadini, anziché sudditi, titolari di diritti oltre che di doveri. Per molti poi quella Liberazione significava la vita, il diritto a esistere, da cose e da subumani destinati allo sterminio, ridiventare persone, soggetti.

Per i trentamila ebrei sopravvissuti significava recuperare vita, affetti, la propria identità, la luce del giorno, una patria. Significava ritrovare un letto sicuro la sera senza il terrore di essere sorpresi nel sonno per venire umiliati, spogliati, stuprati, eliminati o avviati ai campi di Fossoli, di Bolzano, della Riviera di Saba, in attesa dei forni della morte pianificata.

Per loro la vita clandestina, la ricerca di gente amica, di un rifugio, di documenti falsi, di salvacondotti era incominciata fin dal 1938, dall’emanazione delle 27 Leggi razziali e delle centinaia di ordinanze e circolari repressive; cinque anni prima del fatidico 8 settembre, quando la guerra si sarebbe estesa a tutti contro tutti.

Allora proprio quella rete di rifugi, di persone amiche, di anime belle avrebbe costituito negli ultimi lembi di patria, nelle valli, nelle campagne e nei conventi, la prima struttura pronta ad accogliere ricercati, prigionieri, dispersi, sbandati in fuga dalle carceri politiche e da un esercito in rotta abbandonato e tradito dai capi.
Fu la prima trama su cui iniziò la tessitura della Resistenza. Uomini di tutte le provenienze, del Nord e del Sud, diversi per estrazioni sociali, orientamenti, formazione culturale e ideologica, se pur spesso con dolorosi travagli, si sarebbero uniti nell’azione contro un unico nemico.

La miglior gioventù d’Italia, come nel Risorgimento, per amore della libertà e della giustizia avrebbe costituito il nuovo esercito di liberazione.
E grazie ancora alla convergenza di consensi dagli estremi opposti, dal cattolicesimo al comunismo, uomini eccezionali di partiti diversi sarebbero poi giunti a varare e a realizzare il grande dono della Costituzione, le tavole istituzionali della nuova ricostruzione. Da un fortunato coagulo di forze in «concorde discordia», come l’ha definito Norberto Bobbio, nacque dialetticamente il patto della nuova convivenza civile.

Tutti finalmente sarebbero stati legittimi abitanti di una sola casa comune le cui dimensioni sociali e giuridiche, nazionali e internazionali, finalmente sarebbero state ben definite con una struttura e confini ben precisi, con un volto degno e luminoso per un solo popolo.
Gli italiani però, seppur con questo grande dono, non hanno saputo realizzare in concreto quello che alla Liberazione era stato all’ordine del giorno di operai e partigiani: la «Democratizzazione! e Defascistizzazione!» del Paese.

La prima fu attuata solo formalmente. Molti, per interesse e assuefazione alla illegalità, troppi per comodo o semplice inerzia e indifferenza hanno infatti progressivamente abdicato alla funzione di cittadino, delegando i propri diritti, lasciando spazio al potere di gruppi e persone tanto da tollerare nuove disuguaglianze e limitazioni, con lesione e ingiuria alla giustizia e alla libertà.

La seconda, la defascistizzazione, si è limitata alla cancellazione dei vecchi simboli ma non fu attuata, con adeguata epurazione, nei gangli del potere. Mancò soprattutto quella revisione delle coscienze, che ha invece radicalmente innovato la Germania, tanto che alcuni nuovi partiti si sono progressivamente fascistizzati al punto da aspirare a divenire partito unico e padrone del potere, a trasformare il Parlamento in una Camera delle corporazioni costituita da delegati al servizio di capi anziché degli elettori.

Della democrazia è mancata la pratica, gli strumenti per ora ci sono ancora, ma restano inutilizzati e quelli di controllo vengono intanto delegittimati, sfiduciati e attaccati in guerra aperta.
Della defascistizzazione non vi è più traccia perché ogni relitto fascista è stato recuperato per rafforzare il potere del governo contro la giustizia e lo Stato, a servizio di un potere padronale.

Amici e amiche, cittadini, se volete rispettare i nostri martiri e i nostri caduti, guardatevi dal ritorno di un regime che viene spacciato come decisionismo, che presuppone comunque un padrone e ovviamente la disuguaglianza e la prepotenza.
Occorre salvare lo Stato, le istituzioni e la Costituzione.
Forse questo oggi è rivoluzionario ma occorre un nuovo risorgimento, una nuova liberazione.
Siate anche voi partigiani!

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