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ANGELO D’ORSI — Thyssen, l’offensiva dei padroni e la solidarietà  perduta tra i lavoratori

Come si fa a tutelare gli interessi di una classe? Premesso che non ho da impartire lezioni a nessuno, e del tutto consapevole di quanto sia difficile, e sovente ingrato, il mestiere del sindacalista, mi sgomenta l’accenno di divisioni interne anche alla Fiom, che si sta delineando negli ultimi giorni. Ormai convinto che l’unità delle tre confederazioni sia un ricordo di un passato irrecuperabile (e in quella unità largamente fittizia v’era sicuramente del buono, ma tanto v’era di assai poco utile ai ceti lavoratori, come gli sviluppi storici hanno dimostrato), penso tuttavia che l’unità rimanga un valore e un valore importante, sovente decisivo, a partire da certe coordinate di base. All’unità si è ispirato, prevalentemente, il pensiero del Gramsci politico; all’unità delle forze del movimento operaio, contadino, socialista, e antifascista, contro un nemico comune, hanno lavorato sempre i leader più intelligenti e sensibili.

Oggi il nemico comune di tutti i subalterni che vogliano emanciparsi, di tutti gli oppressi che ambiscano alla liberazione, di tutti i democratici preoccupati della drammatica accelerazione del processo di involuzione dello Stato di diritto, è il berlusconismo, e il suo volto economico, il marchionnismo; con tutte le differenze tra i due personaggi, naturalmente: tanto glamour e “presentabile” il manager, altrettanto greve, volgare, ormai ben oltre la soglia della decenza minima, il politico, che ha fatto del tuo retroterra di imprenditore (venditore di sogni), il suo cavallo di battaglia per la sua seconda vita di “governante”. Non c’è in Sergio Marchionne l’ignoranza delle regole minime della democrazia, non c’è la misconoscenza dei fondamenti del diritto pubblico, non c’è l’ansia di autodichiararsi il migliore, anzi the best one. Non c’è neppure l’ossessione sessuale (e il marchio violentemente sessista e “machista”) del cavaliere di Arcore, l’uomo chiamato Papi dalle minorenni da lui “protette”, quell’“uomo malato” di cui aveva fatto un cenno, tra pietà e disprezzo, sua moglie Veronica.

In Marchionne, provvisto di una sua studiatissima eleganza casual (very american), c’è nondimeno una determinata volontà di cancellare il tema stesso dei diritti, trasformandoli in concessioni, spezzettate azienda per azienda, reparto per reparto, lavoratore per lavoratore: in cambio, se si rinuncia ai diritti, si ottiene lavoro; magari sotto forma di straordinario obbligatorio, magari 120 ore, un carico assai pesante, specialmente per le lavoratrici… Marchionne non è “cattivo”, né “buono”; è un dipendente che riceve emolumenti, e benefits, in base a quanto fa risparmiare e guadagnare ai suoi padroni; lo fa in tutti i modi nei quali la politica e il diritto glielo consentono; e i sindacati non sono sempre in grado di frenare la cupidigia dei capitalisti, e a volte si spingono a firmare intese che non sono certo le migliori possibili, ma che talora sono le sole che in una data situazione si possano sottoscrivere.

Certo, se la produttività è il solo faro che deve ispirare il lavoro in fabbrica, se il mercato è il solo giudice (salvo contraddirsi chiedendo condizioni di favore ai governi, o l’intervento diretto dello Stato per salvare aziende pessimamente condotte), se l’accumulazione la sola preghiera possibile e il profitto è la sola legge e gli ad i suoi profeti (parafrasando Marx), allora è chiaro che si possa giungere a mercanteggiare i diritti fino a metterli sotto scacco. Non soltanto i diritti fondamentali, patrimonio acquisito di lotte secolari dei ceti lavoratori, e in specie del proletariato di fabbrica, quelli inerenti, in sostanza, agli orari di lavoro, alle ferie, agli straordinari, ai turni, alle pause (Marchionne è quello che vuole riportare la Fiat agli utili togliendo dieci minuti di pausa agli operai alla catena di Mirafiori e Pomigliano…: la catena di montaggio deve diventare una catena fisica e anche metaforica a carattere generale); ma anche i diritti alle libere rappresentanze sindacali, e i diritti di queste a essere considerate in modo equo e paritario. I recenti applausi dell’assemblea confindustriale, su input della sua presidente Marcegaglia, all’ad della ThyssenKrupp, sono stati una terribile conferma che persino il diritto per eccellenza, il diritto sine qua non, ossia il diritto alla vita, viene messo in discussione: conta di meno del profitto dei padroni, il diritto elementare alla vita del lavoratore. L’ha già notato Giorgio Cremaschi, su questo sito; ma vale la pena di ribadirlo.

E vale la pena di ribadire che le parole della signora Emma che si è permessa di decretare ingiusta la sentenza di condanna dei responsabili della ditta tedesca nel processo di Torino, non hanno suscitato nel mondo politico e sindacale – dunque anche a sinistra – quella riprovazione che ci si sarebbe aspettata. Forse perché intanto erano già arrivati commenti poco favorevoli dai sindacati e dai dipendenti delle Officine Terni, di proprietà Thyssen, timorosi che l’immediata minaccia ricattatrice della proprietà (“a queste condizioni non ci sarà possibile rimanere in Italia”, hanno commentato) avesse seguito. C’è stato poi il gesto rituale di scuse del direttore Galli, ai familiari delle vittime, mentre si annuncia la canonica stretta di mano della Marcegaglia con quelle famiglie così duramente provate. Ma, appunto, si tratta di gesti formali, che, a leggere le dichiarazioni, finiscono per peggiorare il nostro giudizio.

Davanti a tutto ciò, ahinoi, la classe operaia appare disunita, come i suoi rappresentanti sindacali. E il passaggio teorizzato da Marx, da classe “in sé” (ossia non cosciente) a classe “per sé” (ossia che abbia acquisito la coscienza del proprio ruolo storico, e della proprio forza politica), non è vicino. Dov’è finita la solidarietà di classe? Ma persino, ci si potrebbe chiedere, quella tra individui costretti alla stessa “schiavitù salariale”? E com’è possibile che non susciti scandalo, invece della esemplare sentenza del Tribunale di Torino, il commento e l’applauso confindustriale? E, sottolineo, il silenzio generale davanti ad essi? Com’è possibile che non faccia urlare dalla rabbia il mondo intero la scoperta che per non intaccare il margine del profitto d’impresa si sia deliberatamente negletta l’applicazione delle misure minime di tutela degli operai in una situazione lavorativa ad alto rischio? E non si dovrebbe fare uno sforzo supplementare per far capire ai lavoratori e sindacalisti di Terni che nella vicenda Thyssen si è giocata una partita nazionale e generale? Che difendere oggi il lavoro e la sua tutela fisica contro gli infortuni a Torino, significa diminuire le possibilità di altre possibili Thyssen. E che, davvero, se gli interessi degli operai sono uguali dovunque, da Palermo a Torino, da Terni a Napoli, dobbiamo creare e sviluppare solidarietà, convinti che essa dà forza all’intero movimento, e dà forza ai singoli.

Ma guardando indietro, verso le giornate di lotta per i diritti dei lavoratori a Pomigliano e a Mirafiori – due momenti che con un po’ d’enfasi non esiterei a definire epici –, dobbiamo trarne linfa per resistere, sia ai ricatti padronali, sia all’offensiva generale di questo governo sciagurato; aggiungo, tuttavia, che dobbiamo resistere alla tentazione di spaccare l’unità di quelle forze e di quel sindacato – la FIOM, in primo luogo – che ha tenuto alta tanto la bandiera dei princìpi, quanto quella delle concrete condizioni di lavoro.

Su due fronti, insomma, deve attestarsi la lotta: contro il padronato, che è il soggetto con cui fare i conti, nella maniera più forte possibile, ma anche contro noi stessi, se occorre, ossia, contro l’antico male del movimento operaio, il frammentismo, la tendenza alla divisione davanti all’avversario, che assomiglia troppo spesso a un tragico cupio dissolvi.

Angelo d’Orsi

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