di Giacomo Russo Spena
“Mai più accordi senza il voto degli operai, mai più trattative che non mettano al centro il rapporto coi lavoratori”. Tutto inizia a Termoli nel dicembre ’94. Le organizzazioni sindacali Fiom, Fim e Uilm accettano il piano di austerità e di compressione dei diritti imposto dai vertici della Fiat. Ma i metalmeccanici della Cgil avvertono – per bocca dell’allora segretario nazionale Claudio Sabattini – che sarebbe stata l’ultima volta: “Da Termoli in poi abbiamo messo un freno, già troppe concessioni erano state fatte alle imprese con il risultato di un forte peggioramento delle condizioni di lavoro e della limitazione dei diritti sindacali. In cambio di nulla”. Nasce così la Fiom intesa come quarta confederazione nazionale: nel ’96 la rottura con le altre forze, la via del coraggioso isolamento (nella “svolta di Maratea”). L’indipendenza dell’organizzazione il nuovo paradigma. Assoluto.
Il giornalista Gabriele Polo ripercorre con il suo libro “Ritorno di Fiom” (edito da ManifestoLibri) la storia recente di questo sindacato da Termoli ai giorni d’oggi, analizzando le tappe fondamentali e decisive. Alternando l’analisi storico-politica alle interviste agli ultimi tre segretari nazionali del sindacato metalmeccanico: Claudio Sabattini, Gianni Rinaldini e Maurizio Landini. L’autore ci spiega i motivi per cui le tute blu sono state protagoniste di un nuovo conflitto sociale nel Paese, in un’era post-fordista in cui la fabbrica non è più il solo luogo di produzione.
“Ci consideravano un po’ residuali, il lavoro era ritenuto uno dei tanti elementi. Neanche nel movimento no-global si era riusciti a costruire un’analisi e una partecipazione comuni” ricorda Rinaldini. E poi tutto cambia. Dopo i diktat di Sergio Marchionne a Pomigliano arriva la manifestazione del 16 ottobre 2010: la Fiom, scendendo in piazza con lo slogan “Sì ai diritti, no ai ricatti. Il lavoro è un bene comune”, raccoglie intorno a sè i mille rivoli sparsi in cui si scompone il disagio sociale e politico dell’Italia antiberlusconiana.
La manifestazione è un successo. La sua battaglia diventa di tutti perchè parla di scomparsa delle tutele, dei diritti, della stessa possibilità di costruirsi un futuro. Da constrastare il modello padronale della governance, nemico delle più basilari prassi della democrazia. Sulla coscienza che la precarietà è il risultato di un modello sociale che bisogna modificare per riconquistare il futuro si incontrano operai e studenti. Questi ultimi “scoprono” le fabbriche, mentre la Fiom apre ad innovazioni culturali parlando, ad esempio, di reddito di cittadinanza. Accantonando così le più ferree tesi lavoriste.
Un percorso che passa per i referendum ricattatori a Pomigliano e Mirafiori (perso principalmente per i colletti bianchi); si rifiuta il messaggio di Marchionne per cui – come scrive Polo nel libro – “il mondo è un campo di battaglia, i lavoratori sono soldati, chi non combatte muore. Per farlo bisogna essere disciplinati come militari e flessibili come giunchi”. In tutti gli stabilimenti i metalmeccanici della Cgil non riconoscono la validità delle consultazioni volute dall’ad della Fiat tanto da non dare indicazioni di voto sia a Pomigliano che a Mirafiori.
Allora cosa succede all’industria ex Bertone? Dove le Rsu locali accettano il piano di Marchionne dando il via libera al nuovo ciclo. Una scelta che genera polemiche: critiche piovono sia da destra che da sinistra. Secondo il leader della Cisl, Sergio Bonanni, “escono battute dal referendum le posizioni ideologicamente antagoniste e irrealistiche della Fiom” sottolineando il sostanziale cambio di linea politica dell’organizzazione cigiellina. Il contratto ex Bertone è infatti mutuato su quello siglato a Pomigliano il 29 dicembre 2010: perchè respingerlo nell’impianto campano ed accettarlo ora? Cerchiamo di capire meglio.
Innanzitutto la ex Bertone ha una sua peculiarità: viene da anni di cassa integrazione. Marchionne, nel caso avessero vinto i “no” (cosa plausibile perchè la Fiom a differenza di Pomigliano e Miraforiori ha la maggioranza), avrebbe potuto prendere la palla al balzo per chiudere definitivamente l’impianto. Invece la dirigenza Fiom sembra abbia voluto attuare la più classica “mossa del cavallo”, togliendo di mezzo il pretesto del sindacato avverso all’ad Fiat costringendolo ora ad investire in Italia. E non all’estero, come vorrebbe tanto. Inoltre l’accordo è siglato dalle Rsu locali ma non dalla Fiom a livello nazionale.
“Ha vinto l'intelligenza dei lavoratori – dichiara a Repubblica Landini – che non hanno accettato la pistola puntata alla tempia da parte dell'azienda ma noi non firmeremo mai l'esito di un referendum che non è libero, che si è svolto sotto il ricatto di perdere il lavoro […] La Fiom, a differenza della Fiat, è un'organizzazione trasparente e dunque i dissensi emergono all'esterno. La Fiat è l'ultima organizzazione leninista, non lo permetterebbe mai”. Qui il punto della questione. E più importante per noi.
Cosa sta succedendo tra le tute blu della Cgil? La componente di “sinistra” capeggiata da Giorgio Cremaschi critica la scelta presa all’ex Bertone, sottolineando come anche da Melfi e Pomigliano serpeggino malumori: “Tutto si può dire, tranne che è tutto uguale a prima”. Si critica la linea morbida. Il voto all’ex Bertone è, forse, l’ennesimo punto di svolta della storia della Fiom. Lunedì ci sarà una serrata discussione sulle future linee dell’organizzazione. Nella speranza che la dialettica interna, anche aspra, prevalga sul frazionismo: in questa fase di “sterilità” di alternative al berlusconismo, la crisi strutturale della Fiom sarebbe solo un favore a Marchionne e al potere padronale.