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VETERANI DI UNA GUERRA DI NESSUNO

E’ accaduto un’altra volta che un giovanissimo abbia fatto “piazza pulita” del proprio coetaneo: di certo non ci sono professionisti del crimine dietro questo schiantarsi della ragione, c’è solamente una periferia invisibile, un territorio esistenziale dimenticato per il carico delle sue eredità.
Un bullismo che combatte altre schiere di pari, un disagio relazionale demenzialmente carismatico, una generazione di maledetti per vocazione, che irrompe negli spicchi di città lasciati senza custodi educazionali.
Una colonna di impavidi per età, per inesperienza, per solitudine, che imperversa nelle mancanze altrui, a cominciare da quelle della strada, dove non esiste più regola, né valore, figuriamoci ideale, il disvalore non è più solo la spiegazione acculturata di una negatività, è soprattutto ciò che campeggia sui sellini degli scooter mal allineati ai margini della via.
Ragazzi e ragazze cadono, colpevoli di non essere duri e prepotenti a sufficienza, o perché turisti innocenti di una sera.
Rileggo le cronache, gli sforzi letterari per rendere meno ostico il messaggio che traspare, ma in queste morti c’è poco spazio per qualsivoglia letteratura noir, romanticismo o nostalgia criminale di altri tempi.
Tanti anni fa raccontai della sofferenza che ho provato per il raglio di un mulo ferito a morte, un raglio che ti penetra sottopelle, ti grida dentro le ossa, fino a farti impazzire per non ascoltarlo più.
La gente discute delle ferite, delle lacerazioni, della morte inaccettabile, a me tornano in mente le parole scritte dal mio amico Erri: “ La vergogna del sangue, vergogna che paralizza più dell’ira”.
Troppo facile risolvere e concludere la tragedia con una sentenza, con un’altra condanna del colpevole, troppo semplice e scontato l’epitaffio.
Mi viene più fisico e dunque meno caritatevole il disagio per quella vergogna che dovrebbe assalire; “intero il corpo e la mente, per tanto sangue offeso e umiliato. Vergogna del dolore e vergogna del sangue “.
Quando la vergogna entra nelle case disabitate dal cuore, non c’è più giustificazione né risposta che possa bastare.
Se c’è vergogna che bussa alla tua porta, non è miracolo di qualche seduta di psicoanalisi, piuttosto è capolinea, è ultima stazione concessa alla cecità dell’esser contro sempre e comunque. E’ ghigliottina per ogni colpevole accettazione di un folklore metropolitano che genera cultura dei totem e del branco.
Quando le nocche delle dita sono sbucciate, e nelle orecchie stride il rumore dei denti spezzati, è davvero il momento di mettersi lo zaino in spalla, cacciandovi dentro le armi di offesa e di difesa della propria ottusità e delle proprie miserie, in codici d’onore presi a calci dalla storia.
Adesso c’è chi piange, chi colpevolmente volge le spalle da un’altra parte, chi tenta inutilmente di esorcizzare il male con qualche parentesi a effetto, senza però denunciare le morti per difetto.
Quando un giovane si schianta nella propria disumanità, c’è la torsione delle emozioni, c’è soprattutto a farla da padrone la rampa di lancio dell’innamoramento del “ sono tosto “, forse c’è pure lo spinello, quello deposto come un fiore, e l’altro da fumare, comunque droga sbagliata.
Violenza che diventa simbolo di un associazionismo diverso, ma assai ben conosciuto, dove il fumo e l’alcol che scendono ai polmoni si tramutano in propellente che lega a filo doppio i clan di bambini adulti.

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