di Vittorio Lussana
Analizzando le esposizioni bancarie di molte aziende vinicole italiane si comprende bene l’esigenza di affrontare l’attuale crisi economica con gli strumenti della politica: quella delle scelte adeguate, ovviamente, magari tornando a riflettere su una nuova ‘governance’ continentale responsabile e solidale nei confronti dell’emergenza posta dalla sostenibilità del debito pubblico di alcuni Stati membri dell’Ue. Infatti, per rispondere in modo concreto alle sfide poste alla nostra economia, anche in un comparto tradizionalmente ‘sano’ della nostra produttività nazionale, appare necessario ricordare le cause scatenanti della crisi globale e gli effetti da questa provocati sui bilanci dei singoli Paesi. Sotto lo stretto profilo dei conti, il debito pubblico degli Stati avanzati è passato dall’80 al 100% del Pil. Nella cosiddetta ‘eurozona’ questo rapporto in media è stato, nel 2010, dell’84%, mentre negli Stati Uniti esso è ‘schizzato’ quasi al 100%. Tale evoluzione negativa è dovuta in larga misura alle politiche di salvataggio dei rispettivi sistemi bancari. I Governi europei sono intervenuti con circa 2 mila miliardi di euro, mentre quello americano ha sborsato poco meno di 3 mila miliardi di dollari: un ‘fiume’ di danaro che rischia di diventare un mero contributo statale a fondo perduto. Per quanto riguarda l’Europa, è certamente vero che alcuni Governi, come quello della Grecia, hanno approfittato delle inefficienze istituzionali per indebitarsi fuori misura. Ma risulta altrettanto vero che, oltre al generale aggravamento del debito pubblico, sono state le stesse banche private, europee e internazionali, a determinare e a sostenere le svariate ‘bolle’ finanziarie e speculative che si sono registrate nei settori immobiliari, delle carte di credito e dei derivati in Paesi come l’Irlanda, il Portogallo e la Spagna. L’esposizione delle banche europee nei confronti dei Paesi a rischio è estremamente alta. Le banche tedesche, per esempio, risultano esposte per più di 600 miliardi di dollari, quelle francesi per 440, quelle inglesi per 430, quelle italiane per circa 80 miliardi. Tuttavia, rendere il debito pubblico l’unico parametro di giudizio è anche un po’ fuorviante. Il valore del debito pubblico del Portogallo è di 143 miliardi di euro, mentre quello greco di circa 300 miliardi: cifre importanti, ma sempre da valutare in rapporto al notevole ammontare dei prestiti sopra citati. In ogni caso, proprio per questi motivi si debbono assolutamente affrontare tali crisi finanziarie con gli strumenti della politica, con adeguate scelte economiche dalla chiara impronta europea. Ai singoli Stati e al sistema bancario preso nel suo complesso costerebbe molto di più un eventuale abbandono dell’euro e lo sgretolamento dell’Ue, anche perché si potrebbero persino aggiungere al parametro del debito pubblico altri fattori di rilevante criticità, quali il debito privato, le ‘sofferenze’ bancarie, il sistema pensionistico e via dicendo. Al contrario, eliminando la falsa concezione sulla credibilità finanziaria di uno Stato in rapporto alla tripla ‘A’ concessa da fasulle agenzie di rating, finalmente si può arrivare a riconoscere la centralità del mercato unico europeo e la necessità di aumentare la crescita, l’occupazione e la competitività di tutto il sistema continentale. Pertanto, per ciò che riguarda il debito pubblico mi pare più corretto suggerire di proseguire con il meccanismo finanziario predisposto dall’Unione europea per il ‘salvataggio’ dei Paesi in difficoltà, anche se, dopo il 2013, esso dovrà essere sostituito da un ‘fondo unico europeo’ con una capacità di prestito ‘effettiva’, in grado cioè di finanziarsi anche attraverso l’emissione di titoli garantiti da tutti i Paesi membri dell’Ue. Tutto bene, dunque? Non del tutto. O meglio, non per quegli osservatori economici che ‘blaterano’ di liberalizzazioni o di nuove concessioni di licenze in alcuni settori commerciali o agricoli. Tali meccanismi, infatti, ancora una volta privilegiano la stabilità rispetto alla crescita. Ciò significa che, per riportare il deficit al di sotto del 3% del Pil, saranno richiesti ulteriori sacrifici e una difficile politica di controllo della spesa pubblica interna, almeno sino alla fine del 2013. Il ruolo dell’Unione europea sarà dunque ancor più stringente e con forti poteri sanzionatori, al fine di ottenere una profonda revisione della spesa pubblica e una credibile riduzione di quella pensionistica. Ma proprio a causa di ciò, per riuscire a limitare ogni eventuale spinta deflattiva e nuovi periodi di recessione prolungata, sarebbe necessario che la politica economica dell’Unione europea possa considerare importante il tema della creazione di un vero e proprio ‘fondo per la crescita’, un modo ‘neokeynesiano’, diciamo così, di promuovere e di rilanciare gli investimenti nelle infrastrutture, nella ricerca, nell’innovazione tecnologica secondo progetti da finanziarsi attraverso i contributi degli Stati e, soprattutto, attraverso l’emissione di obbligazioni. Un fondo che potrebbe essere sostenuto anche da una tassa sulle transazioni finanziarie, una sorta di nuova ‘Tobin tax’ insomma, un’idea che in passato piaceva molto proprio al ministro Tremonti, il quale potrebbe farla propria chiedendo la disponibilità a discuterne sia in sede di Commissione europea, sia ai vertici della Bce. (Laici.it)