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Il nostro noi diviso

di Andrea Ermano

È molto grave che un barcone di profughi possa naufragare con tutti i passeggeri a bordo sotto i binocoli di tanti osservatori oscenamente discreti; ma, posto che ciò accada per una tragica fatalità, a quale causa movente dobbiamo attribuire le salve di battute nazional-padane sui naufraghi morti?

“Con gli immigrati non possiamo usare le armi, per ora”, parola dell'ex ministro leghista Castelli. “Quando i nostri pescherecci, disarmati, si avvicinano alle coste della Tunisia vengono mitragliati. Usiamo lo stesso metodo. . .”, parola dell'eurodeputato leghista Speroni: “Hitler ha sbagliato tutto! Se fosse vissuto ai giorni nostri avrebbe mandato i tedeschi coi barconi a invadere il mondo e nessuno avrebbe potuto fermarli perché. . . be', ci sono le ragioni umanitarie”.

Così, la morte accidentale di una carretta migrante viene inalveata in un letto di gelo psichico, sul quale il nostro comune sentire è destinato a deragliare da ogni rapporto con il dolore degli altri. Eppure, esistono satelliti geostazionari. Esistono previsioni atmosferiche. E il Mediterraneo è zona di guerra. Un bel po' di occhi sono puntati sul tratto di mare antistante alle nostre coste. Un bel po’ di previsioni atmosferiche vengono scodellate a getto continuo sulle scrivanie degli strateghi che dovrebbero quindi sapere che cosa bolle in pentola tra la Libia, la Tunisia e l'Italia.

Oplà, sono annegati.

Be', non possiamo mica sparargli addosso, ancora.

Certo, farebbe molto più deterrenza se li mitragliassimo. In fondo, perché no?

Il tiro al rifugiato ha buone possibilità di divenire lo sport nazional-padano, dato che Hitler oggi espugnerebbe il castello di Udine mimetizzato da bimba eritrea.

Ai tempi in cui la propaganda nazista non si nascondeva dietro alle ragioni umanitarie, i trattati di logica filosofica insegnavano che “comprendere il senso di una proposizione significa comprendere che cosa accade se essa è vera”.

Noi comprendiamo che cosa ci sta accadendo?

Il professor Alberto Asor Rosa sul manifesto se lo chiede: “A che punto è la dissoluzione del sistema democratico?” Per il professore siamo alla vigilia di una crisi simile a quelle del 1922 in Italia e del 1933 in Germania: “Le ultime occasioni per evitare che la storia si ripeta stanno rapidamente sfumando”.

L’ultimo baluardo repubblicano consisterebbe, secondo il professore, negli articoli 87 e 88 della Costituzione, che attribuiscono al Presidente della Repubblica “il comando delle Forze armate” e la facoltà di “sciogliere le Camere”. Su questa base bisognerebbe, sempre secondo Asor Rosa, procedere a un “colpo di mano dall’alto” instaurando quello che lui chiama un “normale stato d’emergenza”, con tanto di Carabinieri, Polizia di Stato, sospensione delle immunità parlamentari, restituzione alla magistratura delle sue prerogative, proclamazione d’autorità di nuove regole elettorali, soluzione del conflitto d’interessi e rimozione della “lobby affaristico-delinquenziale al potere”.

La cifra paradossale della cosa si può intravvedere in filigrana nell’espressione “normale stato d’emergenza”, dove l’attributo sembra contraddetto dal sostantivo e viceversa: “Pensavo mi chiamasse uno psichiatra, non un giornalista”, ha confessato a Goffredo De Marchis di Repubblica il vecchio professore dopo che il suo appello para-golpista aveva scatenato una bella levata di scudi. Se lo dice lui.

Siamo di fronte all’ennesimo sintomo weimariano? Speroni fa balenare la mitraglia della Guardia costiera contro i migranti? Ed ecco allora che Asor evoca l’arma dei Carabinieri e lo stato d’emergenza. . . Deterrenza bilanciata, escalation assicurata.

Nella sua summa dedicata alla “sindrome weimariana” Peter Sloterdijk mostra bene i rischi insiti nel surriscaldamento verbale, di cui – nel 1922 come nel 1933 – furono protagoniste varie formazioni paramilitari ad alto tenore ideologico.

La mancanza di senso della misura si manifesta anzitutto come mancanza di dubbi circa le posizioni ideologiche proprie. Ed affligge in modo più virulento le ideologie maggiormente capaci di provocare le tragedie più grandi.

La mancanza militante di senso della misura alimenta una progressione dell’arbitrarietà incline alla violenza, ma soprattutto prepara, per accumulo, quel fenomeno che Sloterdjik definisce “scatenamento cinico”, in forza del quale, raggiunto il punto di saturazione, scatta una sorta d’isteria collettiva sulla cui onda ha luogo la transizione totalitaria.

Da noi, fino a qualche tempo fa, la questione della tenuta democratica pareva risolta alla radice nel rapporto con l'Europa. Ma l’Unione Europea appare al momento divisa e disorientata a causa delle turbolenze globali, mentre l’anti-europeismo appartiene ai caratteri originari della destra, sicché ora entra in oscillazione anche questo ancoraggio.

Dobbiamo guardare in faccia la realtà di un “noi diviso”, come tratteggiato da Remo Bodei nell’omonimo saggio del 1998. Dobbiamo comprendere bene, però, dove passa la faglia. Bisogna cioè vedere quali sono le formazioni storiche di interessi che divergono o confliggono.

Per alcuni “poteri forti” è del tutto indifferente se l'Italia rappresenta la quinta o la cinquantesima potenza industriale del mondo, né cambia granché per loro se il tessuto sociale, civile ed economico del Paese gode o meno di buona salute, e lo stesso vale per l’ancoraggio europeo. Quali sono questi “poteri forti”?

Ad esempio, la mafia, titolare di fatturati ben maggiori rispetto a molti di quelli legali dell'industria e del commercio: è un sub-sistema che vuole comandare sul proprio territorio, al limite per trasformarlo in discarica.

Ad esempio, il berlusconismo, nome che sta qui per l’ala rapace della razza padrona: un sub-sistema che funziona secondo regole proprie, in tensione perenne con le regole vigenti in ogni “paese normale”. E che importa se la deriva si fa sempre più allarmante.

Ad esempio, lo strapotere delle gerarchie cattoliche, che confligge con l’idea di progresso civile dell’Italia – vuoi nella dimensione democratica o dell'integrazione europea o dello stato di diritto – tre sinonimi di un incremento di laicità non facilmente compatibile, hic et nunc, con il costrutto materiale e dottrinale vaticano, che è l’archetipo primo e il teatro ultimo del nostro “noi diviso”.

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