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Che siamo tantissimi

di Ivano Sartori

Non piace a tutti, ma piace a molti. Piace persino a parecchi di quelli che non lo votano. Lo trovano simpatico. Vorrebbero avere i suoi soldi, le sue ville, la sua faccia di tolla, le sue donne. Su quest’ultimo privilegio bisogna però intendersi.

Quali donne? Quelle di cui hanno sempre fruito i magnati dell’industria cinematografica sia stipulando contratti a tempo determinato (amanti) che indeterminato (mogli) con conseguenti clausole capestro in caso di separazione? No, lui le donne se le piglia quando e come vuole. Alla maniera delle stagiste e delle precarie, come si addice a questi tempi in cui abbondano glutei e seni ma difettano le sedie e le scrivanie su cui poggiarli.

Lui le compra a stock, le donne. Le paga pochissimo o tantissimo, a seconda del capriccio e della capacità di costoro di ricattarlo, e le lascia senza spiegazioni. Ha la fila davanti alla sua porta, così come ne ha moltissime in via di dismissione e rottamazione. Grazie alla globalizzazione, si serve dai più convenienti mercati esteri. Ovvio che, alla lunga, tante dipendenti (dal suo portafoglio) gli abbiano provocato qualche grattacapo. Problemi più di facciata che di sostanza. Più da pettegolezzi giornalistici che da effetti penali. È tutto da dimostrare che la sua gestione disinvolta dell’altro sesso possa procurargli grane giudiziarie dalle spiacevoli conseguenze politiche. E poi, come si diceva, piace a troppi. E continuerà a piacere anche se dovesse essere costretto a interrompere il suo coito con la politica e gli fosse precluso per sette anni il saluto dei granatieri di fazione al Quirinale.

Mettetela come volete e vada come vada, lui resterà sempre nei sogni bagnati di certi italiani e nelle ambizioni da bigiotteria di tante piccole italiane. Resterà comunque un’icona del Bar Sport. Un mito, una leggenda, una guida spirituale e spiritata dei vitelloni della sterminata provincia italiana che, per la prima volta in centocinquanta di storia, è riuscita a mandare un suo vero rappresentante al governo del Paese. E non c’è confronto che tenga con quell’altro provinciale che fu il forlivese Benito Mussolini.

Quello andò al potere per fare politica con un progetto, per quanto discutibile, in testa. Questo, invece, unicamente per piegare la politica ai suoi piaceri e farne un balocco con cui trastullarsi, con cui gratificare il proprio ego, con cui avere donne e premiarne le innocenti prestazioni (nessuno può pensare che le sue avance vadano oltre i palpeggiamenti di una mano morta da autobus affollato) con ben remunerate sinecure o alte cariche istituzionali.

L’Uomo in questione è immortale (con la «t») non solo perché inganna le casalinghe incollate alle sue televisioni, non perché incanta le fanciulle che vogliono diventare reginette con un tocco della sua bacchetta magica, non solo perché la dà a bere alla povera gente facendole credere che le va male per colpa della Costituzione e di Bruxelles, dei comunisti che non lo lasciano lavorare e di quei satanassi di Repubblica.

No, lui continuerà a piacere, a essere difeso, imitato, amato e venerato soprattutto da una categoria di questo Paese in preoccupante espansione e ascesa: gli uomini soli. Perché lui, l’uomo che ha tutto soffre di una profonda, insondabile solitudine. E perciò non può essere che lui il primus inter pares, l’idolo di uomini senza figli, senza una moglie, senza una famiglia. Uomini magari circondati da stuoli di fanciulle adoranti, perlomeno fin che dureranno i soldi per pagarle affinché non si prostituiscano. Fin che riusciranno a fargliela credere, che non si prostituiscono.

Sono tanti gli italiani, tra i venti e i settanta, a trovarsi nella condizione di solitudine e disperazione di quel signore arrivato che li rappresenta e li riscatta tutti. Che li redime. Quando fa girare tra le ragazze discinte la statuetta di Priapo o apparecchia per una «cena elegante» non lo fa tanto per dilettare se stesso e la sua combriccola, quanto per celebrare il rito degli affetti surrogati. E sul trenino, sul Bunga bunga Express salgono idealmente passeggeri che non sono lì con il corpo ma ci sono idealmente con lo spirito, in virtù di quella macchina formidabile che è il desiderio. Teletrasportata, l’immaginazione vola dai luoghi più remoti d’Italia alla reggia del sultano e ne spia l’alcova. E l’invidia del pene si trasforma in ammirazione e complicità.

Non ci sentiamo di biasimarli, questi ammiratori, né di compatirli e ancor meno di condannarli. Non rappresentano una categoria morale, sono un dato sociologico. E sono tantissimi. Se avessimo la cattiveria e la tracotanza dei giannizzeri che montano la guardia al palazzo, potremmo chiamarli sfigati. Perché un Figo di tale fatta può essere portato in trionfo solo da una massa di sfigati con le spalle robuste e tutto il resto molto flessibile.

In ogni caso, sarebbe inelegante infierire su poveracci che, in conformità con il nostro carattere nazionale, hanno preferito piegarsi anziché combattere con il rischio di spezzarsi. Siamo tutti, o quasi, malleabili. Argilla morbida nelle mani del Grande Vasaio. Tutto qui. Il resto è eroismo.

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