di Marta De Luca
E’ bene chiarire sin da subito al presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, che riteniamo il mondo dell’imprenditoria italiana assai sensibile al fascino di certi atteggiamenti dirigisti. Comprendiamo che ciò non rappresenti esattamente una considerazione di stima nei confronti dei nostri ‘capitani d’industria’. Ma tant’è, ciò rappresenta un nostro dubbio reale ed effettivo, abbondantemente suffragato da argomentazioni di vario genere e tipo, nonché da una nostra formazione culturale laica niente affatto improntata al ‘tutto e subito’, alla contrattualizzazione anche dei rapporti umani più semplici, al pregiudizio ottuso nei confronti di chi ritiene che si possano avere opinioni e punti di vista differenziati intorno a un qualsiasi problema da affrontare. Il nostro stucchevole mondo delle imprese, in questa lunga fase di crisi economica si è ritrovato a mezza strada tra le vecchie logiche del monetarismo fine a se stesso, che ha prodotto, in due decenni di ‘revanche’, null’altro che la semplice ‘stagnazione interna’ di ogni singolo Paese industrializzato e l’econometria keynesiana, la quale, essendo improntata a concezioni di equilibrio complessivo di ciascun ‘sistema-Paese’, porta la maggior parte della ‘coltissima’ imprenditoria di casa nostra a ridurre una simile impostazione a una sola parola, a una sola paura, a un solo incubo: le tasse. La differenza fra queste due scuole di pensiero è dettata dal fatto che i non-monetaristi accettano quello che considerano il fondamentale passaggio pratico della teoria generale di Keynes, e cioè che l’economia di mercato sia soggetta a fluttuazioni di produzione, di disoccupazione e di prezzi che possono e debbono essere corrette. I monetaristi, invece, mantengono fermo il punto che non vi sia alcun bisogno di stabilizzare l’economia finché la crescita dell’offerta di moneta segue una regola prestabilita, poiché se anche ciò fosse necessario, non è detto che si abbia la capacità di farlo in maniera fruttuosa. Ciò significa che per il mondo imprenditoriale più conservatore torna assai comodo anche semplicemente paventare il dubbio che possano esistere volontà ‘sospette’, all’interno di una coalizione politica, che potrebbero far riferimento ad antichi ‘antagonismi di classe’, poiché ciò giustifica ogni giudizio negativo intorno all’utilizzo della leva fiscale, anche se in forme differenziate, anche se improntate a parametri di equità redistributiva, pur se si perseguono logiche di calcolo mutualistico e progressivo. Dunque, non ha del tutto torto chi sta teorizzando, in questi anni, la formazione di una nuova e più forte compagine ‘terzopolista’. Se, infatti, la sinistra italiana non deciderà ben presto di voler chiarire innanzitutto a se stessa questo discorso, essa non riuscirà mai a evitare del tutto di incorrere nell’equivoco aziendalista più tipico di tanti nostri ‘piccoli Berlusconi’: quello di far credere che con una forza progressista al Governo, ogni forma di proprietà privata possa essere sottoposta a un asfissiante controllo a scopo di tassazione. Questo genere di considerazioni rimangono ben presenti in molti ambienti imprenditoriali italiani, che considerano la questione di una miglior redistribuzione delle risorse del Paese semplicemente una sorta di ricatto morale. Ma anche verso questi ambienti, la sinistra italiana dovrebbe porsi la questione di riuscire a fornire una risposta credibile. O, per lo meno, di dimostrare, con un certo grado di ammissibilità, che una sintesi tra libertà imprenditoriale e giustizia sociale non corrisponde affatto a una forma nascosta di lotta di classe. Insomma, se ci sono tanti ‘piccoli Berlusconi’ che di politica non capiscono un emerito ‘tubo’, soprattutto al nord, e se esiste un ceto sociale talmente provincialista da arrivare a originare un fenomeno come il leghismo, ciò è dovuto a questioni che la sinistra italiana, assai colpevolmente, non è stata in grado di affrontare nel suo stesso seno. Dunque, l’equivoco rimane: se in Italia ci sono tanti imprenditori che mantengono molte riserve su una nuova o rinnovata sinistra riformista, un problema, da qualche parte, ci dovrà pur essere. La sinistra italiana non può più permettersi di lasciare certe armi demagogiche in mano a gente del genere, che non sa quasi nulla del capitalismo moderno e delle sue esigenze di investire sull’innovazione, sulla ricerca, su vere riforme strutturali e di riorganizzazione complessiva del sistema produttivo. Essa continua a lasciarsi accusare di voler togliere alla gente ciò che essa si è guadagnata con i propri sacrifici mediante forme di tassazione patrimoniale, continua insomma a sentirsi dire che sollevare la questione di una sana politica dei redditi rappresenta solamente una forma di ricatto morale, una sorta di ‘piagnisteo sociale’. Eppure, quanto piangono certi imprenditori, quando vengono colti con le ‘mani nel sacco’ delle loro speculazioni e dei loro clamorosi dissesti finanziari! Il mostro comunista che impone le tasse è un ‘cavallo azzoppato’ che, purtroppo, resta ancora ‘in piedi’. Così come resta argomento validissimo il fatto che i nostri imprenditori subiscano il fascino della demagogia e del populismo più dirigista, poiché essi stessi non sono altro che dei veri e propri ‘gerarchi’ delle proprie aziende, frustrati dagli interventi di ‘disturbo interno’ dei sindacati. Non siamo, insomma, a una sana dialettica tra socialisti e liberali, ma all’ennesimo avvilente e ammorbante scontro ideologico tra statalismo burocratizzato e liberismo ‘anarcoide’. Ed è inutile: da questa tenaglia pseudo-culturale non se ne esce neanche con l’aiuto di Don Bosco, poiché rimaniamo tutti costretti in una terribile camicia di forza che ci porta sull’orlo della follia psichica, che ci costringe allo scontro forzato, a una contrapposizione continua tra tutte le forze politiche e sociali. (Laici.it)