Monetizzati

Tra Piazza di Monte Citorio e il Raphaël – alle radici della nostra decadenza civile.

di Andrea Ermano

Una vita fa, uscendo dall’Hotel Raphaël, Bettino Craxi, venne bersagliato da monetine, un po' come a mezza settimana scorsa il ministro della Difesa, Ignazio La Russa, e la sottosegretaria alla Presidenza del Consiglio, Daniela Santanché.

Si prova una remora interiore ad accostare il nome del leader socialista a La Russa e Santanché. I due monetizzati di oggi, provenienti entrambi dalla “Fiamma tricolore”, sia pure in fasi diverse, avrebbero ben potuto far parte dei monetizzatori di allora. Sì, perché, quel giorno, il 30 aprile del 1993, c'erano anche i missini di fronte al Raphaël, e non solo i demosinistri. Il leader del PSI, però, li accomunò tutti indistintamente nella definizione: “Tiratori di rubli”.

Parlò solamente di “rubli”, Craxi, forse perché i missini erano rimasti, in effetti, lungamente esclusi dalla corruttela, che era privilegio partitocratico riservato al cosiddetto “arco costituzionale”. A quel privilegio corruttorio l’MSI non aveva potuto accedere (fino ad allora); e quindi Craxi, uomo sincero di natura, fin troppo sincero per un politico italiano, potrebbe aver inteso nella protesta “da destra” una misura di legittimità.

Si sentì invece pugnalato alla schiena da Achille Occhetto anche e soprattutto in quanto Craxi – a differenza dei monetizzati di oggi – Craxi si reputava un uomo di sinistra e, nel momento del pericolo estremo per la casa madre socialista, si sarebbe atteso po’ di solidarietà almeno a sinistra. In ottemperanza al dovere di solidarietà tra compagni il PSI aveva estratto pochi anni prima il corpo ancor vivo del PCI-PDS da sotto le macerie del Muro di Berlino, rinunciando alle famose elezioni anticipate e consentendo l’adesione di Botteghe Oscure all’Internazionale.

Craxi si reputava un uomo di sinistra, anzi “il punto di equilibrio più a sinistra, in Italia”, com'ebbe a dire lui stesso a Rossana Rossanda. Vero o falso? Proprio il PSI craxiano aveva funta da punta di lancia nella cavalcata ussara contro i vecchi tabernacoli della glaciazione brezneviana. Nel duello con Berlinguer, iniziato a fine anni Settanta, era stato Craxi ad anticipare quel “neo-liberismo socialdemocratico” cui Zygmunt Bauman non del tutto a torto attribuisce la deriva a destra di molti leader europei. Il craxismo ha rimodulato le strategie euro-socialiste dei Gonzales, dei Blair e degli Schroeder secondo il principio per cui, come scrive Baumann, “qualsiasi cosa voi (il centro-destra) facciate, noi (il centro-sinistra) possiamo farla meglio”. Diagnosi non nuova, per altro, dato che già nel 1996 fu esposta da Marco Revelli in un celebre saggio dal titolo Le due destre.

Fu, dunque, Craxi l’antesignano della “destra di centro-sinistra”, che in Italia darà la linea ai vari governi Amato, Prodi e D’Alema?

Così parrebbe. Ma l’apparenza inganna, almeno in parte. Perché in Craxi sempre – nell’amministratore milanese come nel segretario nazionale come nel presidente del Consiglio –prevaleva la preoccupazione per le condizioni materiali delle classi popolari. Cosa che può constatare chiunque a occhio nudo. Basti pensare a quanto nel nostro Paese è regredita in vent'anni la situazione operaia, femminile, giovanile, meridionale, migratoria . . .

Non che il PSI e il suo leader fossero innocenti rispetto alla “questione morale”, ma financo il vizio corruttorio assumeva in Ghino di Tacco un qualche senso politico, sia pur nella logica perversa del male minore, che parve preferibile al mal maggiore, cioè la barbarie terroristica alimentata da inflazione galoppante e disoccupazione a due cifre.

I “giovani rampanti” di Via del Corso pensavano che – sconfitto il furore brigatista a colpi di “edonismo reaganiano” – avrebbero poi potuto facilmente dedicarsi a socialdemocratizzare il PCI, o per lo meno le sue componenti più ragionevoli. E pensavano di poter superare l'unità politica dei cattolici, mandando infine la DC all'opposizione.

Per incanto, l’Italia sarebbe allora divenuta una democrazia dell'alternanza, un “paese normale”, come la Francia e la Germania, come la Spagna e il Portogallo, come tutte le altre nazioni d'Europa. Lungo questa traiettoria anche il malcostume sarebbe stato automaticamente riassorbito dentro limiti fisiologici, pensavano, giacché la contendibilità del governo avrebbe infallibilmente innescato un circolo virtuoso nella selezione della classe dirigente a venire.

Le cose andarono diversamente. Nel momento decisivo Craxi fu colpito e affondato. La legge elettorale venne disarticolata, l’assetto costituzionale stravolto e il Parlamento, di porcata in porcata, consegnato in ostaggio a un dominus miliardario. Il quale all’epoca di Tangentopoli aveva schierato tutte le tv Fininvest su posizioni ultra-giustizialiste, salvo poi ridispiegarle su posizioni ultra-garantiste per sfuggire a inchieste e processi vari.

I dirigenti di Via del Corso non videro lo scatenamento cinico che incubava sotto la neve del turbo-edonismo di massa, non compresero che con Berlusconi la secolarizzazione dei costumi avrebbe assunto connotati weimariani, né sull’altra faccia della stessa medaglia si accorsero dell’impossibilità strutturale, per le gerarchie ecclesiastiche, di stabilire un rapporto equilibrato con la modernità. La fine dell’unità politica dei cattolici non poteva perciò essere metabolizzata senza colpo ferire. Insomma, nessun “potere forte”, e men che meno il Vaticano, accettò la prospettiva di un’alternativa socialista in Italia.

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Quella del 1994 fu la seconda crisi storica del socialismo italiano, dalla quale esso inizia solo ora, e timidamente, a riprendersi con la faticosa fuoriuscita dal neo-liberismo.

La prima grande crisi si era avuta con la scissione di Livorno, la marcia su Roma, l'assassinio di Giacomo Matteotti e la conseguente instaurazione del “clerico-fascismo” (così battezzò il nuovo regime don Luigi Sturzo sulla via dell’esilio londinese).

Anche la seconda crisi storica del PSI ha comportato per l’Italia un ventennio di decadenza civile, tuttora in corso. La causa di ciò consiste sostanzialmente nel fatto che il nostro Paese, dopo la dissoluzione della DC, non disponeva di classi dirigenti alternative, se non appunto quella aggregatasi intorno a Craxi, Martelli e De Michelis. Caduti questi, la quinta potenza industriale è stata retta da molti loro “vice”, taluni anche capacissimi e meritevolissimi, per carità. Ma la classe dirigente di un paese non s'improvvisa.

Forse per questa ragione, fino all'ultimo, Craxi non riuscì a credere che l'establishment avrebbe avallato la liquidazione del PSI. Ne sarebbero conseguiti decenni di sgoverno, pensava. Ragionamento giusto, ma un po' ingenuo.

Accadde a Craxi quello che era accaduto a Moro, che aveva vaticinato la dissoluzione democristiana se il suo partito l’avesse abbandonato agli assassini delle BR: “il mio sangue ricadrà su di voi”. La DC non s'impressionò per così poco, lo abbandonò alle BR e poi si dissolse, lentamente, inesorabilmente.

Il potere non s’identifica con il bene comune, il buongoverno, la giusta misura ecc. No, il potere vuole il potere, nient'altro che il potere, tutto il potere. E tutto non gli è ancora abbastanza. Perciò, la sua fame di sé non conosce un limite, ma solo l'oltraggio.

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