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Le radici della mafia al Nord

Mafia al nord, più la conosci e più ti accorgi di quanto assomigli a quella del sud. Ramificata sul territorio, onnipresente, violenta, prevaricatrice. Lo sa bene chi in certe periferie delle grandi metropoli convive, porta a porta, con i boss e le loro famiglie trapiantate nel settentrione a partire dagli anni 50 e che ne subisce – per lo più in silenzio – piccoli e grandi soprusi quotidiani. Ma soprattutto lo sa chi fa impresa, in particolare nei settori dell’edilizia, del movimento terra, dell’agro alimentare, dei trasporti, e guarda con distacco al clamore suscitato sui media da recenti indagini giudiziarie in territori ritenuti per decenni immuni dal contagio, persino da alcune autorità istituzionali.

Memorabile in questo senso l’affermazione del prefetto di Milano del gennaio 2010 sull’inesistenza della mafia nel capoluogo lombardo, pochi mesi prima che alcune clamorose inchieste della magistratura mostrassero la presenza di strutture criminali radicate a tutti i livelli in Lombardia. Ma chi quotidianamente immerge le mani nel mondo degli affari sa che interi comparti economici delle regioni settentrionali da tempo convivono silenziosamente con la mafia, la subiscono, ci scendono a patti nel modo meno indolore o più vantaggioso, cercando di fare buon viso a cattivo gioco. È in alcune confidenze a “microfono spento” che ho trovato la migliore spiegazione di cosa sia la “colonizzazione” denunciata recentemente dalla Direzione nazionale antimafia nella sua ultima relazione annuale.

Il rappresentante commerciale di una impresa di Torino che affitta veicoli meccanici per il movimento terra mi ha raccontato, per esempio, del suo rapporto con un importante cliente di Milano. Il torinese sa che dietro quell’imprenditore che paga spesso in contante qualcosa non quadra. Il cliente milanese è un imprenditore ben vestito, poliglotta, affabile. Apparentemente ineccepibile. In disparte dietro di lui, però, c’è sempre un anziano, un signore di poche parole che si esprime solo in dialetto calabrese, verso il quale il manager ogni tanto si volta, per chiedere un cenno di consenso sull’andamento della trattativa. Sull’imprenditore girano brutte voci, ma è un cliente da tenere stretto perché paga le fatture regolarmente. Ogni tanto il manager si lascia sfuggire una battuta macabra, ma non si capisce se siano scherzi di cattivo gusto o velate minacce. Tuttavia il rappresentante commerciale non dimostra timore, né indignazione. Piuttosto rassegnazione, presa d’atto di uno stato di fatto, una convivenza “necessaria”, direbbe il vituperato Lunardi, ex ministro dei lavori pubblici.

Quanti sono gli imprenditori che operano nell’edilizia, nel nolo a caldo o freddo, nei trasporti, nella distribuzione alimentare che vivono situazioni di questo genere a Torino, Modena, Milano? Basta chiedere ai lavoratori edili che quotidianamente popolano i cantieri delle nostre città o agli operatori che nottetempo brulicano nei grandi ortomercati. Sono loro testimoni dei quotidiani compromessi dei propri datori di lavoro con questi interlocutori “con cui non si può discutere”. Loro sanno che bene che i miliardi di euro che Dia, Dna, Eurispes denunciano ogni anno come “fatturato” delle mafie sono investiti ovunque intorno a noi, a nostra insaputa, nelle regioni settentrionali. Sono nel negozio di alimentari sotto casa, sono nei muri del palazzo dove abitiamo, forse sono sulla strada che percorriamo ogni giorno per andare in ufficio. Nell’albergo di lusso quasi sempre vuoto, magari nella boutique in centro che apre e chiude in pochi mesi, nella filiale di banca di provincia dove quei signori ottengono facilmente aperture di credito negate ai più. Chi può dire quante volte, in una giornata, entriamo in contatto con i frutti dei proventi criminali? In questo scenario affermare che le mafie sono un problema del sud è un po’ come sostenere che lo tsunami sia un problema di chi passeggia sulla battigia.

Come ha denunciato pochi giorni fa il governatore della Banca D’Italia Mario Draghi alla Statale di Milano, la colonizzazione mafiosa mette a rischio non solo la crescita economica del paese, ma la natura stessa della democrazia. Scandalizzarsi? Forse è più utile cercare di capire. Un modo per farlo è provare mettersi dalla parte di coloro che con la mafia si trovano quotidianamente faccia a faccia: da un lato le vittime, dall’altro i complici. Perché al nord le mafie, esattamente come al sud, fanno leva in primo luogo sulle debolezze, sulle necessità materiali e sulle ambizioni degli uomini, vittime o complici che siano. Di fronte al bisogno, di fronte alla minaccia, di fronte alla prospettiva di un facile arricchimento l’uomo del nord – al di là di polverosi stereotipi su presunti anticorpi antimafiosi – si è rivelato, come quello del sud, timoroso, insicuro, corruttibile. Affatto desideroso di immolare gli interessi suoi e della sua famiglia sull’altare della giustizia: lo facciano altri, io sopravvivo, prima o poi qualcun(altro) ci penserà. Al nord come al sud, uniti dalla stessa fragilità, meschinità ed istinto di sopravvivenza. Sentimenti umani che vengono esaltati dalla precarietà economica, dalla cultura dell’arrivismo e dell’individualismo, dall’assenza di solidarietà e di senso civico, l’humus su cui le mafie tradizionalmente mettono radici. La facilità con cui le hanno affondate nel nord devono interrogarci sulle fondamenta di una società sfibrata, ripiegata su se stessa, asfittica.

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