Magistratura, si dice politicizzazione, si legge indipendenza

di Livio Pepino

La giustizia penale è, da tempo, uno snodo centrale nella vita del Paese. Ne accompagna le vicende più rilevanti, funge da surrogato di una politica che non c’è, suscita reazioni abnormi che rischiano di travolgere le stesse basi dello Stato di diritto. Fino a determinare, da ultimo, un mix di tragico e di grottesco. Un capo di governo inquisito per fatti di prostituzione minorile è un unicum nella storia delle democrazie occidentali. E altrettanto unica è la reazione. Un capo di governo che risponde a quella imputazione ordinando ai suoi tecnici e commensali di “punire” i pubblici ministeri che indagano rinvia a scenari di caduta dell’impero romano, quando «un criminale benestante poteva non solo ottenere l’annullamento di una giusta sentenza di condanna, ma anche infliggere all’accusatore, ai testimoni e al giudice la punizione che più gli piaceva» (così, con riferimento all’epoca dell’imperatore Commodo, E. Gibbon, Declino e caduta dell’impero romano, Mondadori, 2000). Non si tratta solo di contingenze. La gravità dei fatti e la loro reiterazione ha ormai seminato il terreno di macerie, in termini sia istituzionali che culturali. Per questo è necessario porre sin d’ora alcuni paletti in vista di una necessaria ricostruzione.

Una delle macerie culturali è la diffusa affermazione, ormai trasformata in dogma, che il ruolo e la credibilità della giustizia penale sono inquinati da una impropria “politicizzazione” di giudici e pubblici ministeri. Alla celebrazione del dogma si accompagna poi, per rafforzarlo, l’evocazione di un’epoca felice, di una sorta di paradiso terrestre perduto in cui i magistrati erano apolitici e, per questo, autorevoli e circondati da generale consenso. Si tratta, in realtà, di una leggenda metropolitana priva di reale fondamento. I magistrati italiani sono oggi assai meno partecipi del sistema politico di quanto non fossero nell’Italia liberale (nel quale erano, socialmente e culturalmente, parte del sistema di potere dominante che, per definizione, era estraneo al loro ambito di indagine e di controllo). Quando si parla di “politicizzazione” si fa riferimento ad altro. A cosa, dunque? È questo il cuore del problema, che ha a che vedere non con forzature soggettive ma con una grande questione istituzionale.

Conviene prendere le mosse dai sacri testi. Lo Statuto fondamentale del Regno di Sardegna (concesso il 4 marzo 1848 e rimasto in vigore, nel nostro Paese sino al 1948) era chiaro e univoco: «la giustizia emana dal Re, ed è amministrata in nome suo dai Giudici che Egli istituisce» (art. 68). Non meno netta ed esplicita è, sul punto, la Costituzione repubblicana del 1948: «la giustizia è amministrata in nome del popolo. I giudici sono soggetti soltanto alla legge» (art. 101). Le differenze sono evidenti. Quella prevista dalla Costituzione del 1948 è una rivoluzione copernicana nel rapporto tra la giurisdizione e gli altri poteri dello Stato. Nel modello dello Statuto albertino l’ordine giudiziario era una semplice articolazione della pubblica amministrazione, una sua appendice; nella Costituzione repubblicana i magistrati hanno, ciascuno singolarmente considerato, la pienezza del potere giudiziario. L’impianto costituzionale è del tutto nuovo. In esso la sfera della politica si amplia, affiancando ai segmenti classici (partiti, parlamento, governo etc.) altri elementi tra cui la giurisdizione: non per ragioni o virtuosismi di ingegneria istituzionale ma per la convinzione che il giusto e il politicamente utile non sempre coincidono. È questa (possibile) dicotomia che fonda e sostiene il disegno di un potere diviso, comprensivo anche di istituzioni e autorità indipendenti, garanti (almeno potenzialmente) del rispetto delle regole da parte di tutti (e, dunque, anche della politica e dei soggetti pubblici). Inevitabilmente in un modello siffatto la giurisdizione è esposta a situazioni di conflitto, più o meno aspre e frequenti, con gli altri poteri e istituzioni.

La realizzazione (pur solo parziale) di questo modello ha determinato non contingenti spostamenti dei rapporti di forza in magistratura ma una collocazione alternativa della giurisdizione nel sistema politico e un controllo di legalità potenzialmente a tutto campo. È questo nuovo e originale rapporto (di alterità anziché di coincidenza) tra magistratura e centri del potere, pubblico e privato, che è per taluni insopportabile e che viene definito “politicizzazione” (provocando scandalo e suggerendo riforme costituzionali o di legislazione ordinaria). Si dice “politicizzazione”, ma si intende indipendenza reale e “pluralismo” (cioè eterogeneità di provenienze e culture) dei magistrati. Non è la stessa cosa. L’importante è saperlo!

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