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L’acqua, ieri come oggi

di Augusto Cavadi

Non c’è una cultura, per quanto antica, che non abbia lasciato traccia della bellezza e dell’utilità dell’acqua. «Questo, nei secoli – nota Danilo Dolci in uno degli appunti di questa raccolta di scritti inediti (Il potere e l’acqua, Melampo, Milano 2010) – è filtrato poi, col bisogno dell’acqua, nel sangue della gente che a Trappeto, Segesta, Selinunte, mi ripeteva: “L’acqua è un altro Dio?”». Ma il prezioso elemento vitale conserva anche una perenne valenza politica: «In ogni tempo, civiltà e gestione dell’acqua si identificano». Lo si può osservare in positivo, a proposito degli acquedotti romani o dei sistemi d’irrigazione campestre degli Arabi; ma anche in negativo, constatando come «accentrato dominio (di qualsiasi tipo), incuria delle acque e decadenza, in ogni tempo coincidono». Le esemplificazioni contemporanee sono, ovviamente, molteplici. Il triestino Dolci non può certo sorvolare su «un’irripetibile gemma come Venezia» che, «in un sistema statale per gran parte infetto dal virus clientelare-mafioso, rischia naufragare in un pantano di putride chiacchiere»; ma, siciliano per vocazione, dedica molto spazio a quell’isola dove arriva per la prima volta nel 1952, dove trova disoccupazione e miseria e dove il vecchio contadino Zu Natale Russo “reinventa” la diga: «Qui d’estate per sei mesi non piove. E si produce poco, o niente. Ma d’inverno piove, piove molto. E l’acqua per gran parte va sprecata. Non si potrebbe raccogliere quell’acqua in un bacile, in un grande bacile, per poi utilizzarla nell’estate?». I contadini, organizzatisi, manifestano in maniera sempre più intensa – e sempre non violenta – per ottenere dallo Stato i progetti e i finanziamenti necessari: così, dopo anni di lotte, la diga sullo Jato, nei pressi di Partinico e Montelepre, nonostante l’azione dissuasiva dei mafiosi e dei loro protettori politici, diventa realtà. Ottenuta l’acqua, si tratta di poterla mantenere a costi ragionevoli: ma, «per non esser cara, doveva risultare democratica, non acqua di mafia». Nascono così le cooperative per gestire l’oro azzurro e l’acqua diventa «un’occasione di cultura, di processo educante». La vicenda siciliana dimostra, a tutto il mondo, che «i governi, in ogni ambito e a ogni livello, si inducono a investire in spese di utilità popolare e non clientelari-mafiose (esercitando così potere e non dominio) se, e quando, la gente si sveglia a riconoscere, e a volere che siano realizzati, i propri profondi interessi».

Il sociologo militante non si abbandona ai trionfalismi: racconta come, una volta che l’acqua era diventata «reale lago per tutti», «tanti squallidi “amministratori” della città di Palermo hanno cercato di rubarla legalmente agli agricoltori (…) mentre metà dell’acqua “metropolitana” scolava e ancora scola nel fango virulento – si può immaginare quanto salubre quando risucchiato – dalle tubature sforacchiate, mentre i mafiosi cittadini riuscivano a vendere, da illegali pozzi, alla città la sua acqua. Dagli acquedotti italiani, d’altronde, una recente statistica documenta che va perduto in media dal 25 al 30 per cento dell’acqua. Una distilleria ancora ammorba il respiro a migliaia di persone e impunemente sporca il mare vicino. E altro ancora è da perfezionare. Si possono evolvere meglio le culture? Studiare le varietà più opportune con un più puntuale rapporto col mercato? Ma il decollo è avvenuto. Nella Valle si è mosso un processo di superamento della soggezione, della passività, della paura».

Bastano questi pochi cenni – mi pare – per apprezzare l’iniziativa di Giusy Giani e Giordano Bruschi di pubblicare, dopo molti anni, gli appunti delle conferenze tenute a Genova da Dolci alla vigilia della sua morte. E per condividere le righe conclusive della testimonianza di Vincenzo Consolo, che chiude l’agile e attualissimo volume: «La storia di Danilo Dolci bisognerebbe metterla tutta in fila per poterla capire veramente. Figlio di ferroviere, poi partecipa alla Resistenza, viene messo in carcere dai nazisti e scappa, va a Nomadelfia da don Zeno Saltini, quindi va a Partinico. E lì le lotte sociali e quei bellissimi racconti di analfabeti e contadini scritti da un intellettuale coltissimo, che conosceva la letteratura russa, ma anche quella americana e quella tedesca, che scriveva poesie. E che aveva uno sguardo profondo e capace di andare lontano. No, tipi così non ne nascono spesso».

http://www.narcomafie.it:80/2011/03/04/l’acqua-ieri-come-oggi/

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