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L’indifferenza della piazza nel declino di un regime

di Livio Pepino

Nel lessico politico istituzionale il termine «regime» non designa, necessariamente, un governo autoritario in senso classico. Esso descrive, piuttosto, la sistematica torsione delle regole, delle procedure e delle istituzioni di governo in funzione degli interessi del blocco politico sociale dominante, accompagnata da spiccate venature personalistiche e sorretta da una cultura di stampo plebiscitario. Orbene il regime da anni in vigore nel nostro Paese – ché di questo, indubbiamente, si tratta – sta concludendo il suo ciclo. Non sappiamo, oggi, quando il crollo avrà la sua ratifica formale né cosa avverrà dopo (meglio o peggio che sia…) ma, in ogni caso, la fase politico-istituzionale apertasi nei primi anni Novanta si è chiusa. I cumuli di rifiuti che continuano a sommergere Napoli (con la loro valenza simbolica oltre che materiale), i costumi da basso impero del presidente del Consiglio e dei suoi cortigiani, il sistema di favori e di privilegi diffuso ormai (al centro e in periferia) ancor più che nella stagione di Tangentopoli, il rifiuto di ogni forma di controllo (giudiziario e non) all’esercizio del potere, la contestazione finanche delle più classiche attribuzioni del capo dello Stato sono solo le ultime manifestazioni, impudiche e imbarazzanti, del disfacimento di un progetto di riforma dello Stato e della politica. La seconda Repubblica – nata, nelle dichiarazioni dei suoi promotori, per restituire potere ai cittadini, per semplificare e rendere trasparente la vita politica e amministrativa, per ripristinare un corretto rapporto tra politica e giustizia – non ha realizzato alcuno di quegli obiettivi e si chiude, oggi, travolta dalla inefficienza, da una corruzione dilagante e dalla comprovata incapacità di portare avanti un progetto di riassetto istituzionale (condivisibile o meno che fosse).

Emblematica in questo senso è la vicenda della giustizia, vera “spina nel fianco” del regime sin dal suo inizio, non già per smania di protagonismo di pubblici ministeri e giudici ma in conseguenza delle regole che le sono inevitabilmente proprie (improntate al perseguimento del giusto e non della utilità politica contingente). Orbene, la seconda Repubblica sarà ricordata, con riferimento a questo settore, solo per l’inedita pratica delle leggi ad personam (ferite intollerabili – c’è chi ne ha contate trenta – al principio di uguaglianza e allo Stato costituzionale di diritto), per le il perseguimento di modifiche costituzionali tese a limitare l’indipendenza della magistratura, per una riforma punitiva dell’ordinamento giudiziario e per interventi settoriali tesi a limitare i diritti e le garanzie di fasce consistenti di cittadini (in particolare migranti e lavoratori). Il colpo di coda, poi, è il tentativo di riproporre un quadro politico istituzionale analogo a quello della Roma dell’imperatore Commodo (180-192 dopo Cristo) quando – per usare le parole di . Gibbon in Declino e caduta dell’impero romano – «l’attuazione delle leggi era diventata venale e arbitraria» e «un criminale benestante poteva non solo ottenere l’annullamento di una giusta sentenza di condanna, ma anche infliggere all’accusatore, ai testimoni e al giudice la punizione che più gli piaceva». Ma, appunto, siamo al declino e alla caduta del’impero…

La fine di un regime – lo si è già ricordato – non significa necessariamente “tempi migliori” ché il blocco politico uscente si può riorganizzare con modalità diverse (o addirittura con l’apparenza del nuovo) mantenendo nei fatti una continuità con il passato. Nella società dell’immagine il ricorso alla realtà virtuale può fare miracoli… Perché ciò non accada sarebbe necessaria (è necessaria) una reazione collettiva. Non è, invece, così e il disfacimento del regime sembra avvenire in una diffusa indifferenza. Non mancano certo voci di forte critica: qualche intellettuale e giornalista, alcuni personaggi (religiosi e laici) di grande rigore morale, pochi media, associazioni di cittadini, quel che resta della società civile, settori dell’opposizione (peraltro attenti, per lo più, a non sbilanciarsi troppo…) e altro ancora. Ma manca una indignazione diffusa che si esprima nelle strade e nelle piazze, che gridi la propria voglia di legalità e di giustizia, che sappia indirizzare e controllare il cambiamento. È una mancanza singolare e per certi versi incomprensibile in un Paese che pure ha dimostrato, anche negli ultimi tempi, di sapersi mobilitare sui temi della scuola e del lavoro, e in un contesto internazionale di forte risveglio della piazza. Forse è un segno dei tempi. Ma certo senza indignazione e partecipazione politica il futuro si presenta comunque incerto. Anche se un regime si chiude.

http://www.narcomafie.it/2011/02/02/l’indifferenza-della-piazza-nel-declino-di-un-regime/

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