Cosa dire ai corrotti e a chi riceve aiutini

di Alberto Spampinato

Conoscete il paese in cui le belle ragazze che frequentano con profitto la corte chiamano “aiutini” le prebende che ovunque hanno altro nome e diversa qualificazione morale? Il paese in cui il Parlamento adegua le leggi penali per impedire che qualcuno sia punito per i reati commessi? Il paese in cui il governo getta discredito sulle altre istituzioni? Il paese in cui la realtà supera di gran lunga la fantasia e i comportamenti negativi mettono alla prova la capacità di sopportazione delle persone perbene le quali, nonostante tutto, continuano ad esistere e ad indignarsi?

E’ proprio un strano paese,lo stesso in cui perfino una delicata commentatrice come Nadia Urbinati perda la speranza e, visibilmente indignata, scriva che “l´Italia è un paese surreale, per raccontare il quale non ci sono più parole. Un paese rovesciato, dove tutto funziona esattamente all’opposto di come le cose funzionano in un paese democratico”. (Repubblica 30 gennaio 2011 pag 33). E’ vero. Fa bene Nadia Urbinati ad indignarsi. Ma forse non basta.

Da quanto tempo accadono simili ed altri rovesciamenti? Certo non da ieri. Da lunga pezza il nostro naviglio è uso ad andar per mare con un assetto alquanto sbandato, per le tonnellate di ingiustizia e di illegalità che porta a bordo gettate alla rinfusa, per i venti impetuosi della corruzione, dell’ingiustizia e dello scambio di favori. Questi venti soffiano forte anche quando non gonfiano le pagine dei giornali. Negli anni Settanta e Ottanta soffiarono molto forte, causarono gravissimi danni di cui ancora subiamo le conseguenze. Ma anche allora il naviglio, sebbene sovraccarico, non ebbe minimente a soffrirne e portò a destinazione la turpe mercanzia.

I cittadini perbene giunsero a punte di estrema disperazione. Vedevano il malaffare squadernato sotto i loro occhi, con impudenza. C’era chi denunciava, chi gridava allo scandalo, chi predicava sobrietà e rigore morale. Ma nulla cambiava. Si era compreso già allora, molto prima di Tangentopoli, come andavano certe cose. Si era capito che una perversa degenerazione dell’assetto sociale alimentava ingiustizie, ladrocini, corruttela privata e corruzione delle istituzioni e ingigantiva il debito pubblico. M a nessun rimedio sembrava possibile e nessun rimedio fu possibile. C’è un celebre articolo del 1980, un capolavoro di lucidità e di amarezza, che testimonia quello stato di cose e quel senso di impotenza. E’ uno degli ultimi scritti di Italo Calvino, il celebre “Apologo degli onesti nel paese dei corrotti “, che fu pubblicato sulla prima pagina della Repubblica il 15 marzo 1980. Descrive la disperazione della minoranza etnica degli onesti, a rischio di estinzione, in lotta per perpetuare la specie.

Fa bene rileggerlo di tanto in tanto, per la bella prosa che ci fa rimpiangere il grande scrittore civile scomparso 25 anni fa; per la perfetta descrizione dell’ingranaggio che divora legalità e ricchezze, perché insegna che non basta rappresentare il male in tutto il suo orrore per sconfiggerlo, non basta portare le magagne in piena luce per far trionfare equità e giustizia. Chi si ferma a questo, fa una solo una rappresentazione oscena. Occorre additare il male, ma al tempo stesso, occorre, ogni volta, additare l’antidoto che si propone. Ad esempio,di fronte al dilagare della corruzione, oltre a testimoniare la propria amarezza, a dire quali guasti producono le tangenti, a dire che la Corte Conti ha calcolato che la corruzione costa ogni anno, ad ogni italiano, almeno mille euro e riduce l’efficienza dei servizi pubblici, bisogna chiedere, come hanno fatto Libera ed Avviso Pubblico, che i beni accumulati con questo reato siano confiscati e destinati ad un uso sociale, così come avviene oggi con i beni dei condannati per mafia. Farlo capire vale più di ogni indignazione morale.

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