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Anni di piombo, e l’oblio della memoria

Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, ha detto, riferendosi al caso Battisti, che “noi italiani non siamo stati capaci di trasmettere ai paesi vicini e lontani, il senso della lotta combattuta nel nostro paese contro il terrorismo”.
Ha sottolineato il rischio di perdere la memoria di quanto è accaduto, e di non trasmettere ai giovani la fotografia di “come eravamo”, in una sorta di “rimozione collettiva”, come è avvenuto con la lotta al nazifascismo.

Le parole di Napolitano, e la spinosa vicenda Battisti, dovrebbero indurre ad una riflessione sulla natura ideologica del terrorismo e sulle sue strategie di uso simbolico della violenza, perchè il tempo che stiamo vivendo dimostra, quanto il non dimenticare sia un impegno oltre che di civiltà, anche di salvaguardia per il futuro. E non certamente con uno spirito di vendetta, o di persecuzione all'infinito dei colpevoli. Ma più semplicemente di rendere giustizia ai caduti e ai tanti invalidi, di garantire ai famigliari che pretese ragioni culturali e politiche non prevarichino lo stato di diritto, che in quanto tale deve garantire innanzitutto le vittime silenziose, giacchè portare alla ribalta dei media i terroristi, troppo spesso al centro della scena. Tengono conferenze sugli argomenti più disparati, spesso precedute da riunioni informali con i compagni della zona. Case editrici nazionali si disputano le loro opere, esemplari carriere di cui sono incontrovertibili almeno i passaggi ultimi, da terroristi e assassini, ad avventurosi romantici, intellettuali arrabbiati, che tanto hanno da raccontare.
In Piemonte le Brigate Rosse fecero la loro comparsa nel 1972 con una strategia che era ancora indefinita e con azioni sporadiche, sottovalutate dagli inquirenti, dai giornali, che presentavano contrastanti letture sulla loro matrice ideologica. Si trattò invece di una escalation del terrore che contrassegnò gli anni successivi, costellati di attentati, ferimenti e omicidi.
Personalmente ricordo perfettamente il clima pesante e di terrore che si respirava a Torino, che è stata uno dei massimi epicentri della stagione stragista. Particolarmente indimenticabile il periodo del primo processo alle Brigate Rosse in concomitanza del sequestro ed uccisione di Aldo Moro.
Le tante vittime umiliate e offese, la paura, la mia scuola con i corridoi tappezzati con le foto delle vittime, come dimenticare l'immagine indelebile di Roberto Crescenzio, che il 1 ottobre 1977 si trovava all'interno del bar L'Angelo Azzurro di via Po, mentre fuori si svolgeva una manifestazione di protesta per la morte di Walter Rossi, un militante di Lotta Continua ucciso con un colpo di pistola davanti a una sezione del Msi a Roma. La manifestazione degenerò con l'assalto al bar Angelo Azzurro, ritenuto un locale dove si spacciava eroina, venne incendiato con il lancio di bottiglie molotov.
Lo studente Roberto Crescenzio (figlio di gente umile, immigrata dal veneto, figlio di un imbianchino) che si trovava all'interno, quasi soffocato dal fumo acre, cerca disperatamente di uscire, inciampa, rotola sulla moquette fusa che si appiccica ai vestiti, e si trasforma quindi in una torcia umana. Si rialza, raggiunge i portici di via Po, lo si è visto uscire barcollante, gettarsi a terra nel tentativo disperato di spegnere le fiamme che lo divoravano. Qualcuno gli buttò addosso una coperta, gli tagliarono i vestiti incollati al corpo annerito da terribili piaghe, lo adagiarono in mezzo al portico su una sedia, Roberto urlava dal dolore, ma il suo grido si fece sempre più debole, fino a diventare un rantolo; è morto dopo due giorni di agonia, e poco tempo dopo morì anche il padre.
Intanto, intorno, si scatena il panico l'intero edificio è in fiamme, sul pianerottolo del quarto piano, un bimbo di tre anni con la nonna e la baby- sitter, rischiavano la morte per asfissia, fortunatamente i vigili del fuoco riuscirono a trarli in salvo.
Noi ragazzi delle superiori e tante altre persone, eravamo atterriti, e le sue foto (che hanno tappezzato i muri delle scuole), mentre ancora vivo veniva soccorso, con la pelle che gli cadeva a brandelli dal corpo, sono stati uno dei documenti più agghiaccianti di quella follia travestita da ideologia.
Lo sdegno di tutti fu grande, i sindacati annunciarono la sospensione dal lavoro per un quarto d'ora. Intanto gli studenti della Fgc raccolsero le firme davanti ai resti del bar di via Po.
Poche settimane dopo, il 16 novembre 1977 a rendere ancora più incandescente il clima in città, ci fu l'assassinio del giornalista Carlo Casalegno, vicedirettore della Stampa, che aveva la colpa di aver denunciato con i suoi scritti la preoccupazione della crescita della violenza.
Successivamente il partito armato dilagava a Torino, nei quartieri Falchera, Barriera di Milano, Parella, vallette, Mirafiori. Prima linea contava su una decina di “ronde proletarie di combattimento”, che facevano affiliati non solo nei ceti operai, ma soprattutto tra i giovanissimi della borghesia, il più noto era Marco, il figlio del pluriministro Carlo Donat-Cattin.
Le sigle che terrorizzavano Torino e il Piemonte, erano una quarantina. Il 7 gennaio 1979 un gruppo del Fronte della gioventù, fece irruzione alla sede del quotidiano La gazzetta del popolo in corso Valdocco, e il giorno dopo ferirono gravemente il poliziotto Francesco Sanna. Il 19 gennaio prima linea uccise l'agente di custodia Giuseppe Lorusso, intanto era già avvenuta l'uccisione degli agenti Lanza e Porceddu.
Il clou venne raggiunto con il sequestro di Aldo Moro e l'assassinio della scorta. A quel punto la sinistra uscì dall'ambiguità (ricordo che era una sensazione molto strana essere di sinistra, chi condannava la violenza, soffriva di una sorta di “dissonanza cognitiva”). Inizialmente ne avevano “colpito uno per educarne cento”, ora ne stavano colpendo cento. Quanti ne educarono?
I successivi omicidi fecero vacillare gli ultimi attendismi: il 24 gennaio venne ucciso un comunista, sindacalista Cgil, Guido Rossa operaio Dell'Italsider di Genova. Ucciso perchè aveva scoperto e denunciato Francesco Berardi fiancheggiatore Br.
Il 29 gennaio un gruppo di PL (Mazzola, Russo, Palombi, Segio, Visardi) uccise a Milano Emilio Alessandrini, un magistrato di orientamento socialista che si era occupato della strage di piazza Fontana. La sinistra armata colpiva clamorosamente a sinistra.
Fu Leonardo Sciascia, radicale, che dopo il rapimento Moro coniò la frase che ancora oggi fa discutere: “Nè con lo Stato, né con le Br”. Il Pc ufficialmente combatte il terrorismo, ma al suo interno si dibatte; nel Psi si distingueva tra “movimento” e organizzazioni eversive. Fu poi con la morte di Rossa che le forze politiche di matrice operaia, i sindacati lasciarono cadere ogni remora a sinistra, e il Pc con loro. Perchè “prima” si diceva che i terroristi erano solo fascisti, poi figli della borghesia, infine si vide che ne facevano parte anche i figli di ideologie riscontrabili nell' “album di famiglia”. Infatti in seguito ad un'inchiesta da parte del Pc sul neofascismo, ne era emerso che erano di grande pericolosità negli attentati dinamitardi, ma non per le morti singole, che venivano eseguite dal terrorismo rosso.
Le istituzioni cominciarono a entrare nelle fabbriche, nella città dell'auto, era impossibile affrontare il problema escludendo la fabbrica, i luoghi di lavoro. Ma gli amministratori della Fiat, reduci da un processo sulle schedature, e provata da dure vertenze sindacali, ritenne di non essere responsabile, che dovevano essere le foze dell'ordine e la magistratura a risolvere la questione. La questura confermava: dalle aziende non è pervenuta alcuna denuncia. Così dopo l'omicidio di Casalegno, la regione chiese a Romiti e Agnelli di poter parlare con i lavoratori.
Le forze politiche avevano visto in piazza San Carlo una risposta della città, che era però impaurita e smarrita, addirittura isolata. Perciò decisero di incontrare i cittadini nella vita di tutti i giorni, nei luoghi di lavoro, per dialogare e spiegare. Alla fine Torino si collocò al centro di una risposta netta, dura, contro le Br, e iniziò una stagione di arresti decisivi, segnati dalla data del 18 febbraio 1980, i primi di una lunga serie, a finire nelle mani degli inquirenti, furono Patrizio Peci e Rocco Micaletto. Gli arresti proseguirono per tutto il 1982, e l'anno venne chiuso da una serie di omicidi, scampoli dell'eversione, e in carcere formarono i gruppetti degli “irriducibili”, l'orrore conclusivo.
Oggi per “non dimenticare”, la politica dovrebbe assumersi le sue responsabilità troppo spesso dimenticate nel teatrino degradante e infangante delle istituzioni a cui assistiamo continuamente, perchè la devianza non è un fatto esistente in natura, ma una precisa conseguenza della mediocrità politca che genera l'antipolitica.

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