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Processo Thyssen, una sentenza contro la ‘mattanza’

Autore Maurizio Zipponi

Al processo di Torino per la strage sul lavoro della Thyssen krupp del 7 dicembre 2007, in cui persero la vita sette operai, l’accusa ha chiesto la condanna a 16 anni e mezzo per l’ad Herald Espenahan, a 13 anni e mezzo per altri quattro dirigenti e a nove anni per un quinto dirigente.
La sentenza sarà di grandissima importanza non a fini di vendetta ma per la possibile instaurazione di un principio giuridico fondamentale. Per la prima volta al principale imputato è stato contestato infatti il reato di omicidio volontario con dolo eventuale, mentre per gli altri imputati l’accusa è di omicidio colposo.
Se la sentenza confermerà l’impianto accusatorio, si stabilirà quindi che trascurare la sicurezza sul lavoro per moltiplicare il profitto è un reato di prima grandezza, che si configura a tutti gli effetti come un omicidio volontario.
Inoltre, elemento altrettanto centrale, a essere messo sotto accusa, è direttamente l’amministratore delegato dell’azienda e non uno dei suoi tanti sottoposti. Viene così incrinato il meccanismo ideato dal ministro Sacconi per cui la responsabilità, in caso di infortuni sul lavoro, non può mai risalire ai vertici aziendali, con tutto quel che ne consegue in termini di impunità garantita per gli stessi.
Si tratterà di un concreto passo avanti sia sulla strada della difesa di una legalità non a uso esclusivo di pochi privilegiati sia su quello della sicurezza sul lavoro.
Viviamo in un paese in cui la tutela della vita e della salute dei lavoratori è considerato spesso un impaccio da aggirare con ogni mezzo, quando non da ignorare come se non esistesse. Le leggi in materia esistono, ma sono sistematicamente trasgredite dal momento che i colpevoli sono sicuri di cavarsela sempre a poco prezzo.
Il risultato è una mattanza di proporzioni raggelanti. Nel 2009 gli infortuni sul lavoro sono stati 790mila e hanno provocato 1050 morti. Una strage. Quest’anno il bilancio è già più sanguinoso. All’inizio di dicembre la percentuale di morti sul lavoro era superiore a quella dell’anno precedente dell’1,5%.
Con impressionante cinismo c’è chi si è rallegrato di queste cifre, segnalando che nel 2009 c’erano stati 85 morti sul lavoro in meno rispetto al 2008 e che gli incidenti erano diminuiti di quasi il 10%. Purtroppo le cose non stanno così. Le statistiche, che comunque sarebbero inaccettabili in un paese civile, non tengono infatti conto di tutto l’immenso continente del lavoro sommerso, milioni di lavoratori che sono di solito costretti a lavorare in condizioni di sicurezza inesistenti e che non figurano tra gli “incidenti sul lavoro” semplicemente perché nessuno ne sa niente.
Le statistiche, infine, non contano le malattie, che sono invece la principale causa di mortalità sul lavoro. I tumori provocati dall’esposizione ad agenti cancerogeni sono, secondo i dati dell’Istituto pubblico di ricerca sulla sicurezza sul lavoro, circa seimila l’anno.
La conclusione è evidente. Se c’è oggi un fronte in cui la lotta per i diritti del lavoro, quella per la costruzione di una democrazia sostanziale e quella per la difesa della legalità si intrecciano è proprio quello che riguarda la sicurezza sul lavoro. Per questo l’esito del processo per la strage della Thyssen Krupp è così importante per la civiltà di questo paese.

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