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Contro il Ddl Gelmini, rimettiamo al centro il nesso tra Sapere, Cultura e Lavoro

di Giuseppe Morrone

Il voto finale alla Camera sul Ddl Gelmini inerente la Riforma dell'Università è annunciato per martedì 30 novembre, con il contributo determinante della componente finiana della maggioranza di Governo che ha deciso di esprimersi a favore. In questi giorni, la massiccia protesta di studenti, ricercatori, docenti e personale tecnico-amministrativo si è espressa e si sta esprimendo in tutta Italia. L'opposizione sociale e politica si sta levando alta e forte al di là di questa scadenza.

L'esigenza primaria è quella di riconoscere e connettere le lotte di civiltà per un'Istruzione – dalla Scuola all'Università e alla Ricerca – pubblica, laica e democratica alle lotte di civiltà per la dignità della Cultura in tutte le sue declinazioni diffuse – arti, musica, cinema, teatro, danza, saperi umanistici, biblioteche, spazi autogestiti, editoria di qualità (libri, riviste, quotidiani).

Contro un Governo che calpesta e mortifica le virtù del Pensiero critico o che esalta solamente la Conoscenza al servizio del Mercato, occorre rimettere al centro il nesso strutturale tra Saperi, Cultura e Lavoro. Si è in malafede, inoltre, quando si dice che le risorse economiche per l'Istruzione e la Cultura non ci sono, perché ci sono eccome: il punto è la loro concentrazione nelle mani di pochi, siano essi persone o grandi concentrazioni industriali e/o bancarie, a danno di una loro redistribuzione – tramite un uso giusto della leva fiscale – nei comparti collettivi, appunto Istruzione e Cultura, ma anche Sanità, Trasporti, Welfare.

Secondo il Ddl del Governo uscito dal Senato ed in discussione alla Camera – in un tripudio di promozione demagogica e mai definita delle vuote parole d'ordine del Merito e dell'Eccellenza – gli atenei pubblici del futuro saranno guidati da Rettori che presiederanno gli organismi chiave, Consigli di Amministrazione rimpinguati da soggetti esterni (rappresentanti dell'economia e delle imprese locali) e Nuclei di valutazione che dovrebbero verificare “la qualità e l'efficacia dell'offerta formativa”.

La deriva aziendalistica e l'asservimento della ricerca a fini solamente privatistici diverrebbero lo scenario prevalente e si rischierebbe la confisca degli atenei statali da parte di Confindustria e Crui (la Conferenza dei Rettori); e, in questo senso, occorre segnalare l'ulteriore marginalizzazione verso cui potrebbero essere sospinti i saperi umanistici (storici, filosofici, letterari, artistici, antropologici) – per definizione non produttivi secondo tale logica economica competitiva per il profitto, quanto da valorizzare – specialmente in questi tempi – come strumenti atti a combattere l'abbrutimento e la povertà etica ed intellettuale che ci circondano nonché a porre le basi per una necessaria educazione civica e politica di massa.

Con uno o più decreti-legislativi, il Governo potrà, ad esempio, “introdurre meccanismi premiali nella distribuzione delle risorse pubbliche” agli atenei e rivedere “la normativa di principio in materia di diritto allo studio”. L'esito consisterebbe, nel primo caso, in un abbattimento ulteriore nella qualità generale degli insegnamenti o addirittura nella chiusura di un gran numero di atenei, in particolare di quelli collocati nelle zone più svantaggiate del Paese; e, nel secondo caso, in uno snaturamento del diritto allo studio, i cui primi segnali stanno emergendo se consideriamo le prossime sforbiciate previste per le borse ed i servizi erogati dagli Enti regionali.

Il tutto in un contesto che – sin dal 2008 – prevede un taglio drastico e progressivo del Ffo (Fondo di finanziamento ordinario), solamente addolcito dalla Finanziaria in dirittura d'arrivo al Senato, mentre – nel Ddl Gelmini – accanto ad ogni nuova misura enunciata si specifica la dicitura: “senza oneri per lo Stato” (quindi, materialmente, senza copertura finanziaria); e cosa dire, poi, delle risorse devolute alle scuole e alle università private dalla recente Finanziaria, da appaiare al taglio di 8 miliardi di euro – nell'arco di tre anni – alla Scuola pubblica per acquistare 131 cacciabombardieri JSF al modico prezzo di 13 miliardi di euro?!

Le nuove regole sul reclutamento di ricercatori e docenti – formulate con l'obiettivo condivisibile di combattere il “baronato” – se viste con l'ottica dei primi (ovvero i ricercatori) – oltre a non affrontare in maniera decisiva il nodo del destino e delle prospettive per gli attuali 24 mila ricercatori a tempo indeterminato (senza contare la situazione dei ricercatori precari, dei docenti a contratto, degli assegnisti e dei dottorandi) sulle cui competenze e disponibilità, non riconosciute né adeguatamente remunerate, si è retto il sistema universitario italiano negli ultimi venti anni – ci consegnano un orizzonte di ulteriore ed irreversibile precarizzazione della Ricerca universitaria tramite l'istituzione delle figura del ricercatore a tempo determinato per un orizzonte che va dai 3 ai 6 anni, periodo dopo il quale la strada potrebbe essere quella – rara perché legata alle risorse disponibili – dell'assunzione o dell'estromissione dall'ambito lavorativo nel quale si è maturati e per il quale si coltivavano speranze.

Ma quegli studenti e quelle studentesse, quelle ricercatrici e quei ricercatori, quei e quelle docenti, quel personale tecnico-amministrativo non protestano soltanto, bensì propongono idee e pratiche per un'Altra Riforma possibile, concreta, orizzontale ed “in grado di portare l'Italia alla costruzione di una Società della Conoscenza libera, democratica ed eguale” (info su: www.altrariforma.it).

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