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DEL CARCERE TUTTI SAPPIAMO TUTTO E’ PROPRIO COSI’?

Sul carcere è scesa nuovamente una cappa fumogena, una sorta di comando a non eccessivare troppo la pietà, in fin dei conti è tutto nello stato naturale delle cose, la ferraglia arrugginita è ben custodita, non vale la pena dedicare tempo e denaro, meglio impegnarsi su altri fronti, più redditizi in termini di visibilità e consenso.
Questa è la sintesi su cui poggia l’intero impianto penitenziario italiano, il sentire comune sul carcere, che trasforma il diritto dei principi fondamentali in optional da sbandierare a comodo, che non interpellano la nostra coscienza, sul ruolo, sull’utilità, la stessa pena che alberga drammaticamente all’interno delle sue celle.
Disquisizioni, chiacchiericcio ruminante, quasi a voler affermare che nelle galere non entra nessuno, non ci rimane alcuno, non esistono neppure condanne scontate, non si trovano uomini e donne alla catena, è tutta una bufala raccontata male.
C’è un conflitto permanente sulla giustizia, un quotidiano affermare ciò che è vero oggi è falso domani, una dinamica che riproduce e rafforza intolleranza e indifferenza nei riguardi di chi ha sbagliato ma rimane un cittadino detenuto, che bisognerebbe aiutare a diventare una persona con il proprio contributo da consegnare alla collettività.
C’è un silenzio che non possiede responsabilità per gli effetti collaterali, gli eventi critici, che attraversano le fondamenta del carcere italiano: si muore sul terzo piano di un letto a castello, su un materasso buttato a terra, sopra una turca posta a fianco delle stoviglie miserabili disperse qua e là.
Si muore così, avvolto il capo in un sacchetto di plastica, con una corda, con un po’ di sapone, si muore lentamente con gli occhi sbarrati, per vederla tutta la propria vita annientata, dentro una latrina fatiscente a dismisura.
Quando un uomo se ne va in questa maniera, è privato della possibilità di un perdono, muore castigato a morte, con il male a farla da padrone, muore con la speranza strozzata in gola, senza tribunali, senza giudici, una condanna nella condanna, il suicidio è un’arma di ritirata strategica, è attenuante prevalente alla aggravante, diviene uscita di emergenza per chi dall’altra parte del muro di cinta, volta le spalle, abbassa lo sguardo, dimenticando che la periferia è il luogo da dove parte la città, la ramificazione di ogni esistenza.
Dall’inizio dell’anno decine di morti ammazzati dall’abbandono e nell’incuria sociale costruita ad arte per mantenere inalterata la condizione disumana del carcere, la procrastinazione del diritto alla vita e alla dignità personale.
Del carcere tutti sappiamo tutto, ma a pochi importa qualcosa davvero, questo vale anche per chi in carcere si arrende, per chi in galera sopravvive, per chi ci lavora, perché ognuno parla, agisce, dimentica, per ideologia, per appartenenza, ciascuno mira al proprio interesse personale, al rafforzamento della propria casta, al male minore da scegliere.
La compassione è finita da un pezzo nelle carceri italiane, la prigione deve essere un luogo in cui ipocritamente è richiesta la riabilitazione, ma allora a chi il compito di educare?
Educare a rieducare è capacità operativa a ricostruire insieme, non è una forma dialettica rinsecchita, che serve solo a giustificare le inadempienze, ma intendimento a ritrovare un sistema di valori condivisi, come processo veritativo per una conquista di coscienza.

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