Per la liberazione del Premio Nobel Liu Xiaobo

di Fabio Evangelisti

Nei giorni scorsi, su tutte le prime pagine dei grandi giornali, campeggiava la classifica stilata dalla rivista Forbes che, quest’anno, ha incoronato il Presidente della Repubblica Popolare Cinese, Hu Jintao, come la persona più potente del mondo. Un risultato che consacra, dunque, la leadership mondiale del Dragone ai danni degli Stati Uniti. Cosa si cela realmente dietro questo “salto in avanti” del paese orientale? Uno Stato (e quindi il suo Presidente) può definirsi “il più potente” quando la sua capacità d’influenza è superiore a quella di qualsiasi altro sul Pianeta. In questo senso il “miracolo economico” cinese si è potuto attuare grazie al fatto che per la Cina la politica estera è, come nel periodo maoista, strumento della politica interna. Caso esemplare è il rapporto che la potenza asiatica ha instaurato con l'Africa.
La presenza di Pechino in Africa ormai è fortissima: affamata di materie prime, ha trovato terreno fertile per i suoi affari in Paesi poverissimi e alla ricerca di mezzi finanziari. In questi contesti vi è la possibilità di riprodurre lo stesso sfruttamento della manodopera attuato in patria e, grazie a dittature corrotte, di lavorare in un mercato favorevole all’esportazione di prodotti scadenti e a basso prezzo, nonché ottenere risorse naturali rare a costi vicini allo zero. Diviene inoltre possibile offrire ingenti finanziamenti a prezzi vantaggiosi in cambio di materie prime e concessioni minerarie e far sì che gli appalti per le opere finanziate siano assegnati ad aziende cinesi.
Nei paesi del Maghreb le multinazionali cinesi la fanno da padrone nell'edilizia e nel commercio; nell’Africa dell’Est si cimentano nel commercio di armi e materie prime. Inoltre (riuscendo tra l’altro a mantenere buoni rapporti con tutti i paesi del Corno d'Africa) la Cina ha alimentato il conflitto fra Etiopia ed Eritrea attraverso la vendita di armi ed equipaggiamenti militari a entrambe le parti. Poiché il Sudan rappresenta il secondo fornitore africano di petrolio, viene difeso su tutti i forum internazionali dalle accuse di violazione dei diritti umani e di genocidio nella regione del Darfur. In Africa occidentale, invece, la strategia cinese prevede, in alcuni casi, l’annullamento dei debiti, in altri il finanziamento di ricerche minerarie e petrolifere. Ma il simbolo del nuovo colonialismo del Dragone risiede nelle vicende del Congo, dove gli schiavi del terzo millennio hanno la pelle nera e poco più di dieci anni. A Likasi, per tre dollari al giorno, s’infilano nelle viscere della terra per strappare le ultime briciole di cobalto e rame. Nessuno ne parla, nessuno conosce le migliaia di situazioni limite che la superpotenza ha creato e con cui si arricchisce: Peter Hitchens, un giornalista inglese deciso a raccontare la storia dei nuovi schiavi, è stato minacciato di morte. I cinesi stessi, a causa dei rigidi controlli censori dei media, non ne conoscono l'esistenza, e le Ong sono impotenti. Non esistono regole, tanto meno controlli, e i morti, sepolti vivi, ustionati, morti letteralmente di sfinimento, non sono censibili. Sono migliaia i nuovi inferni africani generati della fame di energia e materie prime della nazione più popolosa del pianeta. Il sistema prevede sempre la stessa regola: paghe e ricchezze generate dai nuovi investimenti torneranno a casa e, ai congolesi, ai nigeriani, agli africani tutti, resteranno sofferenza, fatica e la desolazione di un Paese spogliato delle proprie ricchezze.
Lo schema della conquista è sempre lo stesso, è il padrone che cambia. Così si diventa i più potenti del Pianeta, così si scalano le classifiche di Forbes, così ci si arricchisce a scapito delle disgrazie altrui, in barba a qualsiasi logica di fratellanza e rispetto della vita e della dignità.
La nostra Camera dei Deputati ha approvato, all’unanimità, una mozione per la liberazione del Premio Nobel Liu Xiaobo. Vedremo, adesso, se il nostro Governo continuerà a restare sordo e cieco dinanzi agli amici cinesi, nella più classica delle situazioni da realpolitik, chiudendo affari per miliardi di dollari con il gigante asiatico senza clausole né preamboli circa il rispetto dei diritti umani da parte di quel Paese.
Davanti al peso dello yuan, purtroppo, è facile dimenticare gli undici anni di carcere inferti al dissidente Liu Xiaobo, le dure repressioni del Tibet, la censura all’informazione e a internet, lo sfruttamento del lavoro nero e minorile, i mille paradossi e le mille contraddizioni civili e sociali che accompagnano l’ascesa economica del Dragone.
Qui risiede il paradosso della politica internazionale, non solo nostrana: la logica imperante sostiene la necessità di tenere buoni rapporti con i paesi esteri, soprattutto quando la mole degli investimenti pronti a riguardare le nostre imprese diventa rilevante. Con il gigante asiatico l’Italia, infatti, ha appena stretto accordi commerciali per 200 miliardi di dollari.
Nel corso della recente visita di Stato in Cina, parlando davanti al collega Hu Jintao, il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha sottolineato che i passi avanti del colosso asiatico “non si misurano solo nella sfera economica”. In un discorso alla Scuola centrale del Partito comunista cinese, Napolitano ha, poi, spiegato che “il cammino intrapreso dalla Cina sulla via delle riforme politiche, del rafforzamento dello stato di diritto, del rispetto dei diritti umani, così come dell'apertura e liberalizzazione dei mercati, è di fondamentale importanza per un'armoniosa integrazione in un sistema internazionale aperto e per una piena sintonia con l'Europa”.
Certo, si tratta di parole opportune e condivisibili, ma corrono il rischio di essere relegate solo all’astrattezza verbale e non tradotte anche in atti di politica estera, soprattutto quando si continuano a stipulare accordi su accordi, che, per carità, vanno benissimo per il rilancio delle eccellenze italiane.
Ma noi dell’Italia dei Valori pretendiamo di più! Pretendiamo che un’altra e più importante eccellenza italiana venga maggiormente sostenuta: essere un baluardo, una punta di diamante, nella lotta per il rispetto dei diritti umani nel mondo, sempre e non a condizione che…

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