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Messico: L’aquila insanguinata

di Cynthia Rodriguez

I dati non lasciano spazio a dubbi: 28mila le vittime della “guerra contro le droghe” in tre anni e mezzo di Governo, una media di 21 morti al giorno. Una guerra che colpisce tutta la popolazione, sia essa innocente o coinvolta nel narcotraffico. Viaggio nella terra messicana, alla scoperta di ciò che spesso non si apprende più dai mass-media ma dai social network

Ciò che vi stiamo per proporre potrebbe apparire come un gioco, ma non lo è. Pensate a un numero compreso tra 1 e 31, poi scegliete un mese del 2007, 2008 o 2009 (oppure uno di quelli già trascorsi del 2010) e infine pensate a un numero compreso tra 1 e 24. Tutti insieme, i numeri compongono una data (giorno, mese, anno) e stabiliscono un’ora. Ripetetelo più e più volte e scoprirete, visitando una qualsiasi emeroteca virtuale dei giornali messicani, che, da quasi 4 anni a questa parte, non esiste alcun giorno senza violenza.

I numeri del conflitto. Le statistiche del Governo messicano, considerati i loro dati ufficiali, parlano di 28 mila morti causati dalla cosidetta “guerra contro le droghe”. Una cifra relativa al solo periodo di presidenza di Felipe Calderòn, eletto nel dicembre del 2006 e che terminerà il proprio mandato nel dicembre 2012. Tali dati sono stati resi noti nel corso di una conferenza stampa del 2 agosto, alla quale è intervenuto Guillermo Valdès, responsabile del Centro di Ricerca e Sicurezza Nazionale, smentendo così le notizie fornite dalla procura generale della Repubblica che, appena due settimane prima – il 16 luglio – parlava di 24 mila assassinati. Una media di 21 morti al giorno destinata ad aumentare in modo tragicamente esponenziale: secondo il responsabile del Consiglio di Sicurezza Nazionale, infatti, nei mesi estivi del 2010 i morti sono saliti a 49 al giorno, registrando anche dei picchi. Significativa in questo caso la data dell’11 giugno 2010, giorno di apertura dei Mondiali di calcio in Sudafrica; una meta che lo stesso presidente del Messico decise di raggiungere per incontrare il leader sudafricano Nelson Mandela e insieme assistere alla partita Messico-Sudafrica, lasciandosi alle spalle i problemi della guerra contro il narco. In Messico credevano – o quantomeno speravano – che almeno quel giorno di festa sarebbe stato risparmiato dalle violenze. Invece quell’11 giugno il sangue scorse in diversi Stati del Paese a causa di regolamenti di conti tra bande rivali, causando 85 morti. Tredici – Chihuahua, Tamaulipas, Guerrero, Sinaloa, San Luis Potosí, Baja California, Durango, Morelos, Jalisco, Querétaro, il Distrito Federal (Città del Messico), el Estado de México e Nayarit – dei 32 Stati messicani furono coinvolti in questo bagno di sangue. Quell’11 giugno 2010 è ricordato come il giorno più violento in assoluto degli ultimi tre anni, superando il drammatico record di 58 persone uccise in una sola giornata, il 3 novembre 2008, come ha ricordato anche il giornale “El Universal” di Città del Messico. Un calcolo preciso, grazie all’iniziativa condivisa tra i vari mezzi d’informazione, giornali in primis, che dedicano uno spazio fisso all’aggiornamento del numero delle vittime.

Criminalità trasversale. Entrando a fa parte delle reti sociali come Facebook o Twitter, chiunque potrà rendersi conto delle informazioni che ruotano intorno al Messico: non solo di tutto ciò che è accaduto, ma anche e soprattutto del presente, di ciò che succede in tempo reale, con la sensazione che il terrore e l’angoscia siano palpabili. La scoperta dell’ennesimo morto causa un fiume di parole che raccontano l’orrore e l’indignazione frutto di una perpetrata impunità. Così, il sangue non scorre più soltanto per le vie delle città o dei Paesi del Messico ma anche in rete, dove la gente comune ha deciso di comunicare – tra di loro ma anche al mondo esterno – la barbarie che vivono quotidianamente. I cittadini, attraverso questi network, raccontano, inviano delle fotografie e dei video al fine di esprimere i propri sentimenti, anche se non è facile essere empatici verso chi vive il terrore quotidiano. In questi quasi quattro anni, da quando cioè i social network hanno avuto un seguito in tutto il mondo, le fonti in Messico per parlare della violenza sono cresciute. Così, per esempio, canali come Elblogdelterror, Infonarco, Elblogdelnarco, Lanotaroja, Mexicorojo, Mexicoviolento, fanno concorrenza ai mezzi tradizionali, essendo capaci di informare in maniera immediata su tutto ciò che accade in ogni singola località del Paese. Non solo. Attraverso questi meccanismi mediatici si è scoperta un’ulteriore realtà messicana: né la criminalità né la violenza sono concentrate in un solo posto geografico come hanno voluto far credere per tanto tempo. Oggi la morte colpisce in maniera trasversale il Messico, trasformando l’intero territorio nazionale in un vero e proprio campo di battaglia che non tralascia alcuna località, piccola o grande che sia.
Anche il linguaggio è cambiato, la violenza è entrata nelle sue radici provocando anche la nascita di neologismi: “narcobloqueo” (strada fermata per i narcotrafficanti), “narcoperiodista” (giornalisti che collaborano con i narcotrafficanti), “narcoempresario” (uomo d’affari colegato con il narcotraffico), “narcomantas” (striscioni con messagi dei narcotrafficanti per la popolazione in generale o per un governante in specifico), oltre a termini noti come sequestrare, ammazzare, uccidere, mutilare. Parole che connotano contesti molto diversi tra loro. Perché la morte raggiunge una scuola, una redazione giornalistica, una chiesa, una comunità per tossicodipendenti; entra nelle case dei poveri ma anche in quelle dei ricchi, oppure bussa alla porta di un cantante alla fine di un suo concerto, facendo così trapelare che era collegato con i narcotrafficanti.
Un regiomontanos (cioè un abitante della città di Monterrey), ha raccontato che, quando lui si collega su Twitter di notte, è consapevole che saprà di nuovi scontri a fuoco, attentati, sequestri, combattimenti nelle strade della sua città, considerata il “cuore” finanziario del Paese. Purtroppo, questo lo avrebbe potuto scrivere qualsiasi persona di qualsiasi città messicana, perché è un destino comune, non solo ai luoghi geografici della zona, ma ai loro stessi abitanti: studenti, lavoratori, poliziotti, uomini d’affari, casalinghe, bambini, anziani, giornalisti e altre migliaia di persone innocenti che sono vittime della criminalità organizzata.

Su e giù per il Messico. Monterrey, capoluogo dello Stato di Nuevo Leòn, considerata la seconda capitale economica del Paese, essendo un importante centro industriale e finanziario. Lì, dove opera il cartello del Golfo e Los Zetas, la città è stata testimone in pochi mesi di come la criminalità organizzata la stia conquistando. Con nuove e raffinate strategie, come quella dei “narcobloqueos”: i narcotrafficanti bloccano un camion lungo una delle arterie stradali che conducono alla città, fanno scendere l’autista, parcheggiano il mezzo pesante di traverso lungo la strada in modo da creare scompiglio, i poliziotti accorrono e nel frattempo loro possono delinquere in totale libertà.
Un altro esempio: la notte del 19 marzo 2010 il personale dell’esercito messicano organizzò un’operazione contro la criminalità all’interno dell’Instituto di Studi Superiori e Tecnologici (Tec) di Monterrey, uno degli atenei privati più importanti del Messico. Contestualmente, gli abitanti di un quartiere vicino monitoravano la situazione e si tenevano in contatto attraverso Twitter, inviandosi messaggi quali «Ci sono colpi di pistola al Tec, non avvicinatevi» oppure «Io ho paura, mio fratello era ancora lì poche ore fa».
Il giorno dopo i giornali titolavano: Incontro al Tec di Monterrey: attacco ai narcos da parte dell’esercito. La realtà era ben diversa. I militari avevano sparato contro due studenti di 23 e 24 anni, due allievi di eccellenza; in un primo momento si era voluto far credere che fossero collegati con la criminalità organizzata. Per scoprire la verità si sono dovuti attendere l’inchiesta giudiziaria e l’intervento della Commissione Nazionale dei Diritti Umani: erano stati i militari ad uccidere i ragazzi, quindi si trattava di un abuso che proveniva dall’esercito. A quest’ultimo la Comisiòn Nacional de Derechos Humanos ha imposto di risarcire le famiglie dei due giovani che rappresentavano delle promesse per il Paese.
Considerato quanto sia drammatica la situazione in una città dove vivono gli uomini d’affari più potenti di tutto il Messico e dove quindi ci sono ingenti interessi economici, provate a immaginare quello che accade nei luoghi in cui la realtà è diametralmente opposta. L’esempio più forte lo troverete sempre a Ciudad Juàrez, vista oggi come la città più pericolosa al mondo, dove le notizie suscitano stati d’animo che vanno dalla tristezza al terrore passando per il dolore, l’indignazione e la solitudine. A Ciudad Juàrez, che conta un milione e 300 mila abitanti, si sono verificate 9 mila morti violente, oltre la metà (5.400) solo nel 2008.
Lo scorso 29 settembre il giornale Il Diario de Juàrez pubblicò una lettera aperta ai narcos della zona per chiedere quale fosse il loro obiettivo finale, facendo anche capire ai politici che in realtà il loro potere è solo sulla carta. Un atto di denuncia che si affianca al ricordo dell’ennesimo giornalista ucciso – questa volta si trattava di un fotografo agli albori della sua carriera – e delle 43 donne uccise a Ciudad Juàrez, cifra che fa salire i casi ad oltre 900 dal 1993.

La ferocia dei carnefici. Il professore Fernando Escalante, osservatore della violenza in Messico, analizzando la situazione criminale ha spiegato che le morti sono sempre più violente e sadiche: i carnefici non rispettano né età, né genere, né status sociale e nemmeno le appartenenze politica e geografica.
Nel Messico attuale, gli assassini non si limitano a sparare: prima devono torturare, violentare, vessare la loro vittima, conosciuta o meno che sia, lanciando a tutta la popolazione il monito su chi è realmente che governa. Ecco perché la decapitazione delle persone oppure il lasciare delle teste di maiale davanti alle case degli individui che intendono colpire sono messaggi che il popolo riesce a decodificare molto bene. In alcuni casi tuttavia i narcotrafficanti non uccidono, ma si “limitano” a maltrattare le loro vittime per farle poi sfilare per le strade della città. È successo ad esempio lo scorso gennaio a Zamora, nello Stato Michoacàn, terra dell’organizzazione criminale chiamata “La Familia”: dopo aver catturato sei presunti ladri, li hanno torturati e dopo, con chiari segni di violenza sul corpo, li hanno costretti a camminare per le vie della città a torso nudo; sulla pelle messaggi come Sono un ladro e per questo La Familia mi ha punito. Michoacàn è lo stesso Stato che ha dato i natali al presidente Calderòn e dove, lo scorso 27 settembre, hanno ucciso, lapidandolo, il sindaco della località di Tancìtaro. Si trattava di un giovane maestro di scuola elementare, eletto a seguito delle dimissioni dei membri del gruppo dello schieramento politico opposto, che erano stati minacciati. Un omicidio che allunga la lista dei primi cittadini assassinati: 11 nel 2010, il doppio nell’arco di questo periodo di Governo. Lutti che hanno toccato gli Stati di Nuevo León, San Luis Potosí, Oaxaca, Tamaulipas, Durango, Guerrero e Chihuahua. Ormai in Messico anche fare il sindaco è diventato un pericolo: in diverse località questa figura manca, in altri casi i futuri aministratori comunali muoiono prima di potersi sedere sullo scranno, come avvenuto lo scorso 27 giugno, a una settimana dalle elezioni, nello stato di Tamaulipas, quando un gruppo di sicari ha ucciso Rodolfo Torre Cantù, candidato del PRI e favorito per la vittoria.
Tamaulipas è lo stesso Stato in cui, il 25 agosto, furono rinvenuti i corpi di 72 migranti provenienti dal Centroamerica, a conferma della crudeltà tangibile con cui gli abitanti devono convivere.
A Cuernavaca, invece, il capoluogo dello Stato di Morelos, il 16 dicembre 2009, durante un incontro con la Marina messicana fu ucciso Arturo Beltràn Leyva, conosciuto come il capo dei capi del potente cartello di Sinaloa. Nel corso dell’operazione ha perso la vita anche un militare, per il quale dopo due giorni sono stati celebrati i funerali di Stato. Al termine delle esequie, alcuni membri del cartello di Sinaloa hanno fatto irruzione nell’abitazione del defunto e hanno ucciso la madre, una zia e due dei suoi fratelli.

Cittadinanza attiva. Queste sono le notizie che tutti i giorni, a qualsiasi ora, si apprendono e che ci fanno conoscere l’orrore con cui i cittadini si devono misurare in maniera costante; le 1626 persone, appartenenti a vari cartelli messicani, che sono state arrestate durante il Governo Calderòn suonano come un debole contraltare.
Con un simile quadro, il diritto-dovere d’informazione è quanto mai importante, fondamentale, vitale. Mario Campos, conduttore radiofonico in Messico e studioso dei fenomeni di comunicazione, spiega che «i social network diffondono soprattutto notizie più appettibili per i propri fruitori, per questo in Messico l’attenzione è rivolta ai temi della violenza e della sicurezza. Spesso sono i cittadini a sostituirsi ai giornalisti, al loro dovere di raccontare la realtà dei fatti, utilizzando sempre più spesso i social network». In questo modo si vuole scuotere le coscienze dei cittadini inermi e chiedere ai propri governanti di adempiere in maniera seria ed efficace ai propri obblighi politici. Perché i problemi individuali hanno delle ripercussioni che gravano sull’intera società.

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