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La ricerca, lo sviluppo e l’innovazione. Intervista a Gian Paolo Manzella

di Luca Pasquali

Intervista a Gian Paolo Manzella; direttore del Dipartimento Innovazione e Impresa della Provincia di Roma.

Lo scorso 20 luglio è stato presentato il rapporto “la ricerca, lo sviluppo e l’innovazione; strumenti per rafforzare coesione e competitività nella Regione Lazio” edito dal CREL Lazio e coordinato dall’OSECO sotto la supervisione di Sapienza Innovazione.
Quali sono i principali elementi di sofferenza della ricerca e dell’innovazione italiana?
Guardi le difficoltà del sistema italiano emergono prima di tutto dai dati. I Fondi per la ricerca sono pari allo 0,5 per cento del Pil, e quindi al di sotto della media europea (0,6%); il numero dei ricercatori è tra i più bassi, quelli italiani sono 70.000, contro i 100 mila della Spagna, i circa 200 mila della Francia e i circa 270 mila della Germania. L'Italia è indietro anche nel rapporto fra ricercatori e occupati pari ad appena 38,2 su mille occupati, contro 79 di Usa, 74 di Corea, 67 di Giappone e Danimarca; nei brevetti che sono pari ad appena 10 mila contro i 90 mila della Germania; nelle esportazioni di prodotti hi-tech che in Italia equivalgono al 12 per cento dei prodotti esportati, contro il 60 per cento dell'Irlanda. Non ci sono solo i numeri, però. C’è una precisa questione culturale.
In Italia, il titolo di Dottore di Ricerca (PhD) non solo non è riconosciuto fuori dall’ambito accademico, ma è sconosciuto ai più e quasi ‘temuto’ da chi pensa di conoscerlo.
Nelle piccole e medie imprese italiane manca spesso l’abitudine a una visione a lungo termine e globale, che porta ad obiettivi ambiziosi e a guardare fuori dai nostri confini.
E’ la cultura dell’innovazione che stenta ad affermarsi. Questo il punto.
E, se vogliamo, la cartina tornasole più chiara di questa situazione riguarda due aspetti. Il primo è il numero di ricercatori che decidono di ‘emigrare’; il secondo, ancora più grave, sono le storie di quei ricercatori che decidono di tornare e riemigrano. I giornali spesso raccontano queste storie, ed ogni volta che le leggo penso a quante possibilità si perdono e quante amarezze si creano.

Dalla presentazione del rapporto è emersa – coerentemente con la Comunicazione Ue 2020 della Commissione Europea – la concreta possibilità di riprendere un sentiero di crescita fondato sulla ricerca, sull’innovazione e, quindi, sulla creazione di nuovi posti di lavoro. Che ruolo assumono, all’interno di tale prospettiva, l’Università, le Imprese, e le Istituzioni?
Fare innovazione vuol dire porre la cultura della competitività al centro di precise scelte politiche in termine di definizione di priorità ed allocazione di risorse.
Quindi una scelta prima di tutto sul piano finanziario, in sede di decisioni di bilancio. Ecco, sotto questo profilo, ho spesso l’impressione che la ricerca, l’istruzione, l’Università siano trattate alla stregua di spese ‘normali’. Ed invece non è così. Si tratta di spese che debbono avere un trattamento diverso. Che debbono caratterizzare ‘qualitativamente’ il Paese.
Non c’è solo una questione finanziaria, però. Si deve modificare il modus operandi agendo su tutta la filiera dell’innovazione. Bisogna creare un ambiente che la favorisca e la sostenga ed è questo l’impegno a cui sono chiamati a diversi livelli le Università, le Imprese e le Istituzioni stesse.
Le Università ed i centri di ricerca hanno il ruolo di formare menti critiche e promuovere l’iniziativa del singolo ricercatore, in un’ottica di scambio con altre esperienze, con il settore privato, con il mono della produzione.
Le imprese hanno il ruolo di internalizzare le nuove tecnologie e l’innovazione e metterle alla portata di tutti, sono i veri interpreti sia della domanda che della risposta dei bisogni della società.
Le Istituzioni, infine, hanno il ruolo di facilitare le interazioni tra le parti, di stimolare domande rimaste inespresse, di accompagnare gli attori meno preparati, di integrare la formazione e l’educazione di imprenditori e ricercatori, di monitorare i processi di innovazione e di diffonderne i risultati di successo come mettere in evidenza gli errori perché non vengano ripetuti.
Solo insieme si può costruire questo ambiente. Insieme e partendo da subito. Ecco io penso sia questa una delle grandi sfide alla nostra portata. Bisogna far crescere i ragazzi italiani nella cultura dell’innovazione e della creatività. Questo significa integrare i programmi scolastici con materie nuove e attività che abituino i ragazzi a interagire con l’esterno: penso a visite ad imprese piccole e grandi, all’università e alle pubbliche amministrazioni, penso a laboratori prototipali per esercitare la manualità ed apprendere il concetto di design e di lavoro di squadra; penso a scambi istituzionalizzati con paesi dell’Unione Europea (magari con un mini-Erasmus per i più piccoli).

Che cosa ci si può aspettare?
Poco se non si cambia. Anzi. Non poco. Se non modifichiamo dobbiamo solo attenderci un peggioramento severo della situazione italiana: in termini di capacità di innovazione, competitività e, a cascata, occupazione, coesione sociale, senso di appartenenza e comunità. Per questo bisogna saper cambiare. Non farlo non è un’opzione. Ecco io penso lo si debba fare in un’ottica moderna. Fissare Obiettivi. Attribuire risorse. Monitorare e Valutare. Premiare o Sanzionare. E poi mettere in rete tutto quello che si muove oggi. Penso al Venture Capital in primo luogo, penso ai fondi europei, penso ad un ruolo delle amministrazioni di facilitatore del raccordo tra ricerca ed impresa; penso ad una nuova generazione di persone che si sono formate in ordinamenti in cui vince il merito e non le relazioni e che tale modello vogliono portare qui, a casa loro. Dobbiamo, insomma, essere all’altezza dei tempi. Questa è, secondo me, la sfida della nostra generazione.

Il 20 luglio l’Osservatorio ha preso l’impegno di avviare in autunno un tavolo di lavoro permanente che coinvolga imprese, università, istituzioni. Quale l’agenda da seguire?
Vede, è essenziale che Università, imprese e istituzioni abbiano un rapporto continuativo e che ognuno di questi attori conosca dinamiche, preferenze ed esigenze degli altri. In un mondo a velocità ‘variabile’ – con mercati che reagiscono istantaneamente ai cambiamenti ed istituzioni che li metabolizzano con maggior lentezza – a questo dialogo è affidata la possibilità di un raccordo efficiente tra questi diversi mondi. L’Università, in quest’ottica ha, secondo me, un ruolo essenziale, di leader. Ma un’Università capace di ‘stare’ nel cambiamento che sta toccando tutti. E che quindi sia capace di ‘sporcarsi’ le mani, di mettersi al servizio della società civile attraverso il mercato e i suoi attori, le imprese, a divenire un broker di conoscenza per le istituzioni. Penso sia un modello al quale ci si sta avvicinando: complici una nuova classe di professori, spesso formatisi in ambienti anche esteri in cui il raccordo insegnamento-mercato è stretto, ed i tagli ai fondi universitari, che impongono una maggiore attenzione alle possibilità di mercato esistenti. Ecco in quest’ottica le iniziative che vanno in questo senso sono di interesse. Basta che non si sovrappongano ma marcino in maniera sinergica e coerente.

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