Sono in questa comunità di servizio e terapeutica “Casa del Giovane“ da tempo ormai, e mi accorgo che c’è sempre qualcosa da imparare, da rielaborare e tenere ben a mente.
Anche quando i percorsi, i metodi, le dinamiche sono tutte al loro posto, c’è un lampo che attraversa il nostro passo, e ci obbliga a fermarci per riflettere.
Molti sono i giovani accolti in queste strutture, e molti sono coloro che accompagnano i loro passi, con attenzione e capacità intuitive, che a volte “servono“ più delle competenze acquisite con lo studio delle tecniche educative.
Certo è difficile comprendere il disagio che li avvolge, ancor più esplicare metodi educativi risolutivi, perché ogni persona è un mondo a sé, allora intervenire diventa “scienza della mente e del cuore, scienza del non ancora, ma che avverrà”, e non sempre è facile riuscire dove la vita non è stata ancora vissuta, ma è stata incredibilmente lacerata fin dal suo sorgere.
Le storie che incontro sono pezzi di vita che sbarrano la strada, bussano alla porta della ragione per tentare di sfiorare finalmente un senso, quel senso che i giovanissimi prendono a calci, per reazione all’indifferenza o all’incapacità dell’altro di farsi carico delle sofferenze che sono state loro imposte da un mercato che disconosce il povero e annichilisce il ricco.
La nostra è una società che etichetta, che ingabbia, che modella a proprio uso e consumo, per poi gettare via l’involucro usato o avariato. E’ una società che allunga il passo, che ha memoria corta, una società che recita, sì, il Padre Nostro, ma lo fa meccanicamente, per non sentire l’importanza di quelle parole, né gli impegni assunti con quella preghiera.
Qualcuno ha detto che, finchè i bambini non saranno intesi come figli di tutti, essi saranno destinati a scontrarsi, e soccombere, con gli interrogativi di questa esistenza.
Forse non sarebbe male osservare a quanto siamo tutti bravi a fare i dottorandi di filosofie comportamentali astratte, a tal punto da ingabbiarci in una serie di mancanze, che hanno prodotto l’otturazione delle intercapedini ove stanno in embrione i mondi futuri.
Riflettendo con onestà intellettuale, si potrebbe sostenere che le negatività messe in atto dai ragazzi, non sono altro che l’esplicitazione di una superficialità verso la propria persona e i propri sentimenti: frutto di un modello genitoriale per lo meno inadeguato.
Ecco allora la paura, la sfiducia in se stessi e negli altri, la convinzione di non valere qualcosa, né di poter fare cose significative per il proprio futuro, e questa percezione genera diffidenza, disimpegno, alimentando solo l’attenzione al “tutto e subito, qui e ora “.
Penso che si diventi responsabili se e quando si esercitano responsabilità reali, seppure appropriate all’età, non certamente attraverso una conduzione educativa assistenziale, fatta di cose date gratis, e di un po’ di regole infagottate con l’elastico, perché in questa ottica verrebbe a mancare la vera responsabilizzazione, quella basata sulla fiducia, sulla tecnica dialettica che non consente agli interlocutori di barare.
Questo è il solo modo per andare incontro alle solitudini che devastano il mondo giovanile, alle incapacità di trasformare relazioni interpersonali conflittuali, in relazioni vere, che servano ad elevare anima e cervello, quindi a costruire nuove convivenze e comunità.