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Non è immune da condanna per ingiuria il datore di lavoro che prende a parolacce il dipendente

Se alcuni superiori, tracotanti di potere datoriale, si sentivano immuni da condanne per aver bistrattato i propri dipendenti finanche con ingiurie, a seguito della sentenza della Cassazione Penale numero 35099 del 29 settembre 2010 dovranno dimostrarsi ben più educati sul luogo di lavoro.
Così Giovanni D’Agata componente del Dipartimento Tematico Nazionale “Tutela del Consumatore” di IDV e fondatore dello “Sportello Dei Diritti” commentando la decisione della Suprema Corte secondo cui il datore di lavoro che insulta il dipendente ricorrendo anche ad offese volgari risponde di ingiuria. Non costituisce scriminante, infatti né il contesto lavorativo o la spiccata sensibilità del dipendente ed anzi l’ambiente di lavoro deve garantire pari dignità a tutti i soggetti coinvolti.
Nel caso di specie, gli ermellini hanno rigettato il ricorso di un imprenditore condannato per ingiuria a una multa ed hanno quindi confermato anche il diritto al risarcimento della persona offesa.
La lavoratrice era stata richiamata dal superiore e questi, in conseguenza della sua reazione aveva replicato “sei una str.. se te la prendi”.
La difesa aveva sostenuto che l’espressione usata era ormai tipizzata nel linguaggio comune romanesco ed era stata detta nel senso di una frase “bonaria, rassicurante, e non offensiva”.
I giudici di piazza Cavour nel rigettare la tesi difensiva, hanno motivato che la dipendente non era “affatto tenuta a sottostare all’uso di epiteti di disprezzo e di disistima in virtù delle generali scelte di espressione del datore di lavoro” ed hanno sottolineato che “nel nostro ordinamento il contesto lavorativo è caratterizzato da una pari dignità dei suoi protagonisti, da una pari effettività di tutta la normativa senza che possa invocarsi, per nessuna delle parti, una desensibilizzazione alle altrui trasgressioni”.

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