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CEFALONIA: CONVEGNO 21 Aprile 2007 a RIMINI — Museo Aviazione sul tema “SETTEMBRE 1943 – LA TRAGEDIA DELLA DIVISIONE ACQUI A CEFALONIA”

RELAZIONE (con aggiornamenti in calce) di Massimo Filippini:

LA VICENDA DI CEFALONIA: DAL MITO ALLA REALTA’
La rivisitazione -alla luce di recenti approfondimenti- di una pagina tragica della nostra storia
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La vicenda di Cefalonia è stata ed è ancora oggi oggetto di accese dispute sfociate ultimamente in un’aspra polemica tra chi vede in essa l’inizio della resistenza partigiana – a tutti indistintamente i militari colà presenti è stata conferita l’attestazione ufficiale di “partigiano” – e chi, in considerazione della sua peculiarità, la considera come un episodio della resistenza militare e neanche il primo che fu invece lo scontro di Porta San Paolo a Roma, costellato per giunta da zone d’ombra e reticenti silenzi che hanno portato taluni studiosi a definirlo – nella scia dell’autorevole scrittore e storico Sergio Romano– “una pagina nera della storia militare italiana”.
A ciò si aggiunga che negli ultimi anni, sfrondando i fatti dei molti aspetti negativi e rifacendosi al discorso – assai retorico ma di scarso spessore storico – tenuto dall’ex presidente Ciampi a Cefalonia nel 2001, si è abbandonata la strada di una rigorosa e fedele ricostruzione storica, trasformando la vicenda in un Mito della Resistenza tout court, reso per di più intangibile dallo stesso Ciampi che definì come “inutili e improponibili revisionismi”, tutti gli sforzi diretti a chiarire fatti che, però, chiari non lo sono mai stati.
Ciò ha portato ad una ‘conventio ad excludendum’ verso i dissenzienti bollati come ‘revisionisti’ e ovviamente contro il sottoscritto ‘reo’ di aver aperto la strada – con il primo libro scritto nel 1998 (“La vera storia dell’eccidio di Cefalonia”) – ad un riesame critico dei fatti proseguito, malgrado il diktat presidenziale, fino ad oggi con il raggiungimento di risultati impensabili e per certi aspetti clamorosi cui non sarei certo pervenuto se mi fossi arreso di fronte all’ostilità di certa storiografia che alla realtà dei fatti preferisce la loro interpretazione in chiave ideologica.
In tal caso mi sarei sentito non solo un disonesto verso la pubblica opinione, da sempre vittima di un colossale inganno, ma, anche e soprattutto, un traditore della memoria di mio Padre, il magg, Federico Filippini, Comandante del Genio della Acqui e ciò non me lo sarei mai perdonato.
Tornando alla materia, due aspetti generali costituiscono il tema assegnatomi:
a) l’esposizione dei fatti, che si incentra soprattutto sul come e perché a Cefalonia si giunse allo scontro armato, e in qual modo gli eventi che ne seguirono si concretizzarono;
b) quanti furono i “morti di Cefalonia”.

Inizio dal primo punto; dell’altro parlerò successivamente.
Osservo innanzitutto che la vicenda si materializzò in tre fasi distinte e successive: quella delle trattative italo-tedesche tra l’8 e il 14 settembre, quella dei combattimenti tra il 15 e il 22, data della resa e quella della rappresaglia tra il 22 e il 24. La prima e la terza sono le più importanti riguardando l’una l’ambiente e i retroscena che precedettero lo scontro, e l’altra il cosiddetto ’eccidio’ sul quale dico subito, anticipando quanto esporrò in seguito, che esso fortunatamente non avvenne nelle ciclopiche proporzioni da sempre tramandate ma si risolse sostanzialmente in un’infame rappresaglia contro gli ufficiali.
Una parentesi. Come ultimo giorno ho parlato del 24 ma il 25 ci fu ancora una rappresaglia, per un motivo ben preciso: la fuga dall’Ospedale di Argostoli di due ufficiali italiani in seguito alla quale –malgrado le fucilazioni fossero cessate il giorno prima con la concessione della
grazia agli ultimi 37 ‘fucilandi’- furono fucilati alla Casetta Rossa, oltre ai 129 Ufficiali del giorno 24 sette altri ufficiali ivi ricoverati. E tra i sette c’era mio padre. Chiusa la parentesi, esponiamo ora i fatti.
Va anzitutto premesso che la Divisione Acqui era una Grande Unità facente parte dell’XI^ Armata Italiana in Grecia con comando ad Atene e ciò sfata l’”equivoco” che essa, in quanto decentrata a Cefalonia e Corfù, godesse di una maggiore autonomia rispetto delle altre Divisioni situate sul continente e il suo comandante potesse quindi decidere a piacimento il da farsi. Il suo potere invece trovava pur sempre, come in ogni organizzazione militare, un limite nella subordinazione gerarchica agli ordini dei propri superiori.
Ebbene, malgrado ciò sia noto da sempre, ancora oggi, a quasi 64 anni dai fatti, si continua a rappresentare la Acqui come una Divisione i cui uomini, rimasti abbandonati e privi di ordini dopo l’8 settembre, decisero all’unanimità di respingere la richiesta tedesca di cedere le artiglierie e le armi pesanti (armi che, tra l’altro, ci erano state fornite in precedenza dagli stessi Tedeschi), scegliendo con un referendum di combattere e morire pur di non subire l’onta del disarmo, affrontando cioè consapevolmente un’impari lotta che finì in un apocalittico massacro.
Questa tesi ‘mitologica’, avallata da Ciampi con la frase “Decisero di non cedere le armi. Preferirono combattere e morire per la patria” ed inneggiante ad un presunto potere decisionale della truppa nei confronti dei superiori implicitamente rappresentati come semplici notai di decisioni altrui, venne accolta dai ‘media’ senza verificarne la rispondenza alla realtà ma basandosi quasi esclusivamente sulle sue parole elevate al rango di dogmi intangibili come quello assolutamente infondato di una Divisione abbandonata a sé stessa e priva di ordini.
La Acqui, invece, di ordini ne ricevette ben due e, per di più, da due differenti Comandi Superiori.
Il primo, inviato dal Comando dell’XI^ Armata di Atene l’8 settembre e replicato il 9, prescriveva a tutte le dipendenti Divisioni, compresa la Acqui, di cedere le artiglierie e le armi pesanti ai Tedeschi; riassumendone i punti più significativi rileviamo che in quello dell’8 settembre venne ordinato di “non fare causa comune con i ribelli greci né con le truppe anglo-americane che sbarcassero”, mentre nel secondo – pervenuto il giorno 9 alle ore venti – fermo restando l’ordine di reagire “ad eventuali azioni di forze ribelli”, si ordinò – a partire dalle ore 10 del giorno 10 – di cedere ai reparti tedeschi che sarebbero subentrati ai nostri le armi collettive e le artiglierie, conservando l’armamento individuale. Tale ordine fu sottoposto dal generale Gandin al parere dei Comandanti di Corpo della Divisione, da lui riuniti in Consiglio di Guerra, e questi, all’unanimità, ne consigliarono l’esecuzione. Si espressero in tal senso il gen. Gherzi Comandante la Fanteria e i Comandanti dei due Reggimenti, col. Ricci e ten. col. Cessari, quello del Genio magg. Filippini e il Comandante del Reggimento d’Artiglieria col. Romagnoli, il quale, pur manifestando alcune perplessità, si limitò a chiedere un ordine scritto cui – come da regolamento – avrebbe senz’altro obbedito.
L’unico contrario fu il Comandante la Marina Mastrangelo, il quale però riceveva ordini da Supermarina e proprio in forza di uno di essi – che era in linea con l’armistizio che imponeva all’Italia di consegnare agli Anglo-americani l’intera flotta – il giorno 9 fece partire per Taranto i due mas e le altre unità minori presenti a Cefalonia. Ciò conferma anche che il distaccamento della Marina era un reparto autonomo aggregato alla Divisione e non parte integrante di essa.
Sulla base dell’ordine ricevuto e del parere favorevole del Consiglio di Guerra, Gandin intavolò trattative con i Tedeschi di cui ci riferì notizie dettagliate l’allora cap. Bronzini, addetto all’Ufficio operazioni del Comando di Divisione, che insieme ad un collega – poi fucilato – venne incaricato di compilare il Diario Storico della Divisione e per tale incombenza restò chiuso nei sei giorni che precedettero l’inizio dello scontro, cioè dall’8 al 14 settembre, nella stanza adiacente a quella del generale. Il Diario andò perduto nel corso delle operazioni belliche ma il Bronzini – che, rimasto uno degli ultimi, fu graziato insieme a pochi altri ufficiali dalla rappresaglia della Casetta Rossa – compilò nel 1946 una Relazione per il Ministero della Guerra, in cui ricostruì quanto aveva scritto. Da tale Relazione si apprende che Gandin condusse le trattative per la cessione delle artiglierie e delle armi pesanti, ordinata dal Comando d’Armata, avendo come obiettivo quello di ottenere il miglior trattamento possibile per i suoi soldati, sulla base anche del prestigio da lui goduto presso i Tedeschi dai quali era tenuto in gran considerazione per aver già fatto parte dello Stato maggiore congiunto italo-germanico ove, come riferì il Bronzini, era entrato in rapporti di stretta conoscenza con alti ufficiali come il generale Keitel. Che egli intendesse obbedire all’ordine dell’Armata è pacifico come è dimostrato dall’andamento delle trattative che – dice sempre Bronzini – proseguirono in un clima di reciproca intesa con il ten.col. Barge, Comandante del locale presidio tedesco, dal quale ricevette assicurazione circa il pieno accoglimento delle sue richieste da parte del Comando Superiore tedesco.
Dopo un secondo Consiglio di Guerra, che si confermò favorevole alla cessione delle armi, Gandin volle ascoltare anche i Cappellani militari per avere un parere sullo stato d’animo della truppa; e anch’essi consigliarono, come “male minore”, la cessione. Questo fu in estrema sintesi lo spirito con cui si svolsero le trattative, cui fece seguito l’invio al Comando tedesco, nella notte sul 12, di una lettera in cui Gandin dichiarava la sua disponibilità.
A questo punto viene spontaneo chiedersi perché l’accordo non si tradusse in realtà ma fu seguito – quando ormai l’XI^ Armata italiana in Grecia si era dissolta come neve al sole – da un successivo Ordine di resistere inviato dal Comando Supremo italiano alla sola Divisione Acqui da cui derivò lo scontro e la rappresaglia sugli ufficiali come tragico epilogo di una vicenda che Gandin cercò di evitare, purtroppo non riuscendovi.
Per quale motivo – ci si deve chiedere – le trattative durarono circa una settimana consentendo a tale ordine di trovare la Acqui in una situazione anomala rispetto alle altre Divisioni che si erano adeguate prontamente a quanto prescritto dal Comando d’Armata e, pur fatte prigioniere, non pagarono certo il contributo di sangue della Acqui ?
Prima di rispondere osserviamo preliminarmente che il tenore letterale di questo secondo ordine, inviato tra l’11 e il 13 settembre dal Comando Supremo del Governo Badoglio riparato precipitosamente a Brindisi (Badoglio che, è bene saperlo, aveva cinicamente previsto la perdita di almeno cinquecentomila militari tra quelli che all’8 settembre si trovavano oltremare) fu: “Comunicate at generale Gandin che deve resistere con le armi at intimazione tedesca di disarmo a Cefalonia, Corfù et altre isole”.
Ciò fa cadere nel nulla le interessate fantasticherie in merito al presunto referendum inteso come motore unico della vicenda per effetto del quale soldati e ufficiali avrebbero intrapreso la lotta. E’ logico invece ritenere che a fronte della prevedibile reazione tedesca Gandin, chiamato ad eseguire un ordine “suicida”, abbia cercato di sondare l'animo della truppa che egli sapeva quanto fosse impreparata, specie in alcuni reparti di fanteria, a sopportare il peso di un'offensiva nemica soprattutto aerea (che poi si rivelò assolutamente decisiva per le sorti della battaglia).
In proposito mi limiterò ad accennare che tale consultazione non fu affatto plebiscitaria perché ad essa non parteciparono tutti i soldati, in particolare quelli dei due Reggimenti di fanteria decentrati nell’isola rispetto al capoluogo Argostoli dove prevalse il parere di una minoranza aprioristicamente ostile ai Tedeschi costituita da artiglieri e marinai che, accentrati nella zona di Argostoli, ebbero buon gioco nel far passare il loro volere per quello della totalità dei soldati, che invece – nella stragrande maggioranza – non ne seppero assolutamente nulla.
A riprova di ciò molti superstiti – da me interpellati – hanno dichiarato di non aver espresso alcun parere o addirittura che di referendum non sentirono nemmeno parlare: le loro testimonianze, di enorme valore storico, sono riportate nel sito www.cefalonia.it che da anni curo sulla vicenda.
Se dunque è provato che nell’ordine di resistere e non in un assai presunto referendum va individuata la causa dello scontro tra la Acqui e i Tedeschi, è necessario ora chiarire perché – a differenza delle altre Divisioni che eseguirono l’ordine dell’XI^ Armata – solo la Acqui non si allineò e rimase in una situazione di incertezza divenendo unica destinataria dell’ordine di Brindisi. Solo la Acqui, perché ?
Nella risposta a tale interrogativo è la spiegazione cruda e agghiacciante della tragedia che riassumerò brevemente: avvenne dunque che – per circa sette giorni – in seno alla Acqui e con epicentro nel 33° Reggimento artiglieria si sviluppò una cospirazione dapprima silente e strisciante e via via sempre più aperta nei confronti del Comando accusato – senza mezzi termini – di voler cedere ‘sua sponte’ le armi; e ciò malgrado Gandin avesse provveduto a far diramare ai Comandi dipendenti – quello di Artiglieria compreso – il testo dell’ordine ricevuto dal Comando d’Armata. Alla responsabile attività di Gandin fece riscontro dunque, in quei giorni, un fermento – uso chiaramente un eufemismo – fra alcuni ufficiali inferiori, quasi tutti di complemento, che fu trasmesso ai propri subordinati creando in una parte di essi uno stato di rivolta su cui influirono anche notizie inventate di sana pianta dai Greci per cui l’arrivo degli Alleati era imminente. Il che contribuì ad eccitare ulteriormente gli animi dei predetti che ne trassero l’errata convinzione che Gandin ed i suoi diretti collaboratori fossero dei “traditori” disposti a cedere, di loro iniziativa, le armi ai Tedeschi.
Su tale “fermento” – riconosciuto, e gliene va dato atto, già nel 1947 dall’Ufficio Storico SME, che in una sua pubblicazione intitolata “CEFALONIA” parlava espressamente di “rivolta contro il generale ad opera di una parte della truppa” (per amore di verità, aggiungerei “sobillata da alcuni ufficiali inferiori, mentre la grande maggioranza di essa era stanca della guerra e con l’intervenuto armistizio anelava soltanto di tornare a casa”) – su tale fermento, dicevo, la quasi totalità degli “studiosi di Cefalonia”, per evidente imbarazzo, ha spesso glissato o minimizzato; ma gli episodi – ne citerò per brevità solo alcuni – sono numerosissimi e i fatti incontrovertibili.
“Traditore” e “vigliacco” furono gli epiteti diretti in quei giorni a Gandin il quale stava faticosamente trattando per salvare la vita anche di coloro che gli si accanivano contro; così come incredibili furono gli atti di sopraffazione contro chiunque si manifestasse obbediente ai superiori o mostrasse di rifuggire dalle loro iniziative, dettate presumibilmente da motivi politici per il cap. Pampaloni, già all’epoca di idee comuniste, o da malcelata ambizione per il ten. Apollonio, divenuto successivamente il capo indiscusso della rivolta attraverso iniziative incompatibili con il suo status di ufficiale: iniziative che però non ne ostacolarono, dopo la guerra, una brillante carriera fino al grado di Generale di Corpo d’Armata.
Si tratta di tristissimi argomenti di cui però è necessario parlare per comprendere appieno quel che successe. Mi limito qui a riportare il lapidario giudizio espresso nella sua Requisitoria dal dott. Stellacci, Pubblico Ministero nel processo svoltosi nel 1956-57 presso il Tribunale Militare di Roma contro i due sopra menzionati ed altri militari, denunziati dal Padre di un Caduto – il benemerito dott. Roberto Triolo – per i reati di cospirazione, rivolta ed insubordinazione contro il gen. Gandin.
“La cospirazione – egli scrisse – nel senso di accordo tra più militari per la commissione di una rivolta contro il Comando di Divisione, nonché di atti ostili contro i Tedeschi che creassero il “fatto compiuto” al fine di impedire al gen. Gandin l’esercizio dei suoi poteri tra cui era quello di decidere e disporre l’atteggiamento da assumere nei confronti dei Tedeschi, è innegabile”.
Questa dunque fu la conclusione del Pubblico Ministero, il quale in base alle risultanze degli atti istruttori (ed io, quale orfano di un Caduto, ho avuto più volte modo di consultarli) ritenne gli imputati responsabili dei reati loro ascritti ma, dato il clima in cui si svolse il processo, ne chiese il proscioglimento perché – pur avendo accertato che i reati furono commessi – ricorse all’escamotage di applicare la discriminante dell’errore putativo consistente nel riconoscere loro di aver agito ritenendo – sia pur erroneamente – di adempiere un dovere. Che tale richiesta sia stata dettata dal clima politico dell’epoca e dalle pressioni ricevute apparve allora e appare ancora oggi certo, dato il favore che in quei tempi accompagnò la valutazione giudiziaria di atti che, pur penalmente sanzionabili, potessero in qualche modo rientrare nell’ambito “resistenziale”.
A quale dovere intendessero adempiere infatti – qualora fossero sopravvissuti – avrebbero dovuto spiegare il carabiniere Nicola Tirino che attentò alla vita di Gandin lanciando il giorno 12 una bomba a mano – per puro caso non esplosa – contro la sua auto o il maresciallo di marina Felice Branca che lo stesso giorno uccise a revolverate il cap. Piero Gazzetti il quale, per ordine del generale, stava recandosi a prelevare alcune suore dal loro convento per portarle al sicuro in un ospedale: egli fu affrontato dal sottufficiale che gli intimò di cedergli il camion e al suo logico rifiuto gli sparò urlando: “Anche voi appartenete alla schiera vigliacca dei traditori!” per tali intendendo, ovviamente, gli appartenenti al Comando di Divisione. Altre spiegazioni su questo singolare modo di adempiere un dovere si sarebbero dovute chiedere a quei militari che tentarono di uccidere il citato col. Ricci ovvero spararono, ferendolo, al magg. Fanucchi comandante di un battaglione.
Bisognerebbe stabilire, inoltre, la liceità del comportamento tenuto dal s.ten. Petruccelli, dei Carabinieri, che il giorno 14 radunò una ventina di uomini per arrestare il generale “reo” di proseguire le trattative anziché mettersi a sparare contro i Tedeschi. Cosa che già avevano fatto il giorno precedente di loro iniziativa – cioè senza aver ricevuto ordini dai loro superiori – i capitani Apollonio e Pampaloni contro due motozattere tedesche -causando loro cinque morti – allo scopo di provocare, a trattative in corso, il “fattaccio compiuto” – la definizione non è mia ma del famoso Comunicato della Presidenza del Consiglio del 1945 su cui avrò modo di ritornare – che ne rendesse impossibile la prosecuzione. E lo stesso giorno ci fu anche un improvviso e improvvido attacco a una casermetta tedesca del Genio, con la morte di un ufficiale, ciò che esasperò in sommo grado i Tedeschi. Sarebbe stato infine interessante sentire gli artiglieri delle citate batterie i quali, mentre i due capitani erano a rapporto da Gandin, puntarono i cannoni sul Comando di Divisione per impedire che questi potesse far arrestare gli stessi, i quali dal canto loro, durante detto rapporto gli preannunciarono che non avrebbero obbedito ai suoi ordini (rendendosi con ciò, come accertò il Pubblico Ministero nella citata Requisitoria, rei di insubordinazione).
Sembra incredibile che non solo ciò sia potuto avvenire ma che addirittura sia stato travisato in modo da far apparire gli autori di questo autentico scempio del Codice Penale Militare come militari esemplari e quindi elogiati, decorati e ricompensati con avanzamenti di carriera, addirittura incredibili per uno di loro (l’”eroe” Apollonio), mentre l’impressione è che in quei giorni l’isola di Cefalonia fosse divenuta una zona franca, se non un vero e proprio Far West, ove l’applicazione dei Regolamenti e dei Codici Militari fu sospesa proprio da coloro che li violarono platealmente.
Quanto sopra è, nella sua cruda ed amara realtà, più che sufficiente a smentire l’esistenza del Mito di Cefalonia fondato sulla ‘consapevole scelta’ referendaria di combattere e morire ma, per evitare che possa essere considerato esclusivamente frutto di mie personali valutazioni non in linea con la tesi ‘mitologica’ su cui insiste ancora una certa storiografia, citerò ora un brano dell’Appunto inviato nel maggio 1962 all’allora Capo dello SME dal Capo dell’Ufficio Storico dell’Esercito col. Broggi, il quale – in occasione della pubblicazione su un settimanale di un articolo sull’argomento Cefalonia – richiesto di un appunto specifico in materia, scrisse testualmente: “L'episodio di Cefalonia è quanto mai scottante soprattutto per il sottofondo di grave crisi disciplinare che lo caratterizzò. Sono infatti noti i gravi episodi di sobillazione sediziosa da parte di taluni ufficiali mentre il gen. Gandin era impegnato nelle trattative con il locale Comando tedesco; le arbitrarie intese segrete con elementi partigiani greci, ai quali furono perfino ceduti da qualche reparto armi e munizioni; talune gravissime iniziative individuali in contrasto con gli ordini del Comando della Divisione, tendenti a forzare ad esso la mano durante i negoziati con i Tedeschi; una certa qual debolezza di detto Comando manifestatasi con la mancata adozione di severe misure contro i principali responsabili di attività sediziose e di intemperanze disciplinari”.
Tale nota, malgrado il suo devastante contenuto, non provocò alcuna attività inquirente da parte di chi di dovere, ma restò “secretata” per quarant’anni al termine dei quali riemerse per opera mia dai polverosissimi archivi militari.
Essa d’altronde non fu un’iniziativa isolata ma costituì, in certo senso, la prosecuzione di quanto aveva già scritto nell’autunno 1948 in una “Relazione Riservata sui fatti di Cefalonia”, il ten. col. Livio Picozzi – all’epoca autorevole esponente dell’Ufficio Storico SME – dopo un sopralluogo nell’isola come membro di una nostra Missione Militare, ivi recatasi tra l’altro per ricostruire la vicenda in loco.
Il suddetto Picozzi fu dunque il primo che a distanza di poco tempo ricostruì la vicenda con dovizia di informazioni assunte sul posto e di testimonianze di nostri superstiti e di cittadini greci, giungendo già all’epoca, il 1948, alle conclusioni riprese, ed evidentemente condivise, dal col. Broggi nel suo Appunto del 1962 e ciò è la prova evidente che l’Esercito sapeva tutto fin quasi dall’inizio, e ciononostante tacque per la preoccupazione – dovuta principalmente al desiderio di non mettere in cattiva luce le FFAA – di cui si fece interprete lo stesso Picozzi che nel finale della sua Relazione suggerì di ‘insabbiare’ il tutto, come puntualmente avvenne e con il risultato di dar vita ad un Mito del tutto infondato ma ideale perchiudere definitivamente la questione.
Oltretutto tale comportamento insabbiatore, tenuto ‘in primis’ proprio dall’esercito, ha provocato anche l’ulteriore conseguenza di vedere immeritatamente glorificati alcuni protagonisti della tragedia a scapito di altri e ciò, trascinandosi fino ai giorni nostri, è stato forse il peggior servigio che detta colpevole reticenza ha arrecato ai fatti di Cefalonia.
Per ragioni di tempo non mi soffermerò sui vari punti della predetta Relazione, limitandomi a citarne alcuni passi che provano ampiamente come l’estensore, di fronte all’inevitabile scandalo che sarebbe derivato dalla diffusione delle notizie da lui apprese, si pose, in sede di ‘conclusioni’, la domanda su “cosa convenisse fare”, cui fece seguire alcuni suggerimenti ai quali le Autorità Militari si attennero puntualmente a totale discapito della verità.
Ecco, di seguito, testualmente riportati, i suggerimenti che il ten. col. Picozzi dette ai propri Superiori:
1) “Lasciare che il sacrificio della Div. “Acqui” sia sempre circonfuso da una luce di gloria. Molti per fortuna sono gli episodi di valore, sia pure più individuali che collettivi. Sembra opportuno che siano messi in sempre maggior luce”.“Insistere sul “movente ideale” che spinse i migliori alla lotta. Non insistere sulla disparità di vedute, sulla crisi iniziale, sugli atti di indisciplina con i quali fu messo a dura prova il Comando.
2) “Non modificare la “storia” già fatta, non perseguire i responsabili di erronee iniziative, anche se dovessero sopraggiungere nuove emergenze; e ciò per non incorrere nel rischio che il “processo” a qualche singolo diventi il processo di Cefalonia.
3) “Spogliare la tragedia dal suo carattere “compassionevole”. Fare dei morti di Cefalonia altrettanti “caduti in guerra”; non presentarli come poveri uccisi.
“Questo vuole il rispetto ad essi dovuto; il riguardo alla sensibilità di migliaia di famiglie e l’opportunità di secondare il “mito” di gloria che si è già formato intorno a questa vicenda, in una larga parte della pubblica opinione”.
A tali suggerimenti degni di figurare in un ipotetico manuale del ‘perfetto insabbiatore’ si attennero -come detto- le FFAA, contribuendo così al sorgere ed al consolidarsi del Mito di Cefalonia divenuto poi –contro le loro intenzioni- oggetto di speculazioni ideologiche senza fine: Mito che – è inutile negarlo – ha trovato il suo maggiore, più appariscente e suggestivo nutrimento nell’enormità del numero delle vittime. Ma fu davvero così? E allora, come promesso, passo ad esaminare il secondo punto, che consiste in una domanda in teoria semplicissima: quanti furono i “morti di Cefalonia”?
Tutto è nato dal famoso “Comunicato ufficiale sui fatti di Cefalonia” diramato il 13 settembre 1945 dall’Ufficio Stampa della Presidenza del Consiglio del Governo presieduto da F. Parri in cui, pur premettendo di poter solo fornire le prime notizie, si riportarono dati e cifre dettagliate al massimo riferendo di “4.750 uomini di truppa e 155 ufficiali sottoposti ad esecuzione sommaria; 260 ufficiali fucilati mediante regolari plotoni di esecuzione: 3.000 uomini di truppa periti per naufragio; totale perdite uomini 9.000, ufficiali 406”.
Da tali dati numerici è scaturito, nel corso degli anni, tutto un rincorrersi incontrollato di cifre (6.500; 9.000; 10.000; oltre 11.000, ecc.) buttate giù da storici, studiosi, autori, per non parlare poi della stampa, senza uno straccio di prova; e il denominatore comune sembra essere quello di ingigantire le stesse, forse per accrescere – in un’opinione pubblica prevalentemente all’oscuro dei fatti – non tanto la pietà per i poveri morti ma il risentimento, soprattutto in chiave ideologica, verso l’allora nemico nazista.
Per di più, ben pochi hanno avanzato la fondamentale distinzione in ordine alle cause della morte: si è scelta per lo più una cifra complessiva, e si è adottata la circostanza più atroce (fucilazione, talvolta chiamata eccidio, talvolta massacro, sterminio, ecc.) da applicarle come etichetta..
In definitiva, si è parlato e si parla tuttora in via cumulativa di “Novemila sterminati”, o di “eccidio dei diecimila” o anche di “Sterminio della Divisione Acqui” su cui si è di recente tenuto un apposito convegno al quale ci si è ben guardati –a riprova della gran coda di paglia degli organizzatori- di far intervenire chi vi parla.
Nel mio ultimo libro, gran parte del quale è dedicata allo specifico punto, ho riportato decine di citazioni. Qui ne ricordo solo una: nei titoli di coda della fiction RAI “Cefalonia” dell’aprile 2005 (che sarà replicata incredibilmente il 24 e 25 di questo mese) si legge: “I sopravvissuti furono 1.286. Mancavano all’appello 9.250 soldati e 390 ufficiali: caduti in battaglia, trucidati dopo la resa, dispersi in mare, annientati nei lager nazisti”.
Non posso negare che un calcolo preciso è difficile, considerato che i fatti chiamati genericamente “di Cefalonia” si risolsero in una pluralità di eventi successivi: perdite nel combattimento o per fucilazione; perdite per naufragio (presumibilmente 1.350 vittime, non le 3.000 del Comunicato; e va aggiunto che, secondo molte testimonianze, le mine su cui urtarono le navi erano state poste in precedenza dagli stessi Italiani); perdite in prigionia; perdite per malattia; dispersi infine nelle diverse dette circostanze. E’ difficile, dicevo: ma ci si deve provare ed io l’ho fatto.
Tornando alle cifre RAI è stato fatto questo elementare calcolo matematico: i militari della Acqui erano circa 11.000: 1.286 – e questo è accertato – rientrarono sicuramente in Puglia da Cefalonia a fine 1944, dopo che i Tedeschi se ne erano andati. Erano i cosiddetti ‘Banditi Acqui’ che al comando del cap. Apollonio collaborarono pienamente con i tedeschi e dopo la loro partenza sostennero –con incredibile faccia tosta- di averli combattuti …stando al loro fianco. Sottraendo il loro numero dal totale si ricava appunto la cifra che la RAI ha propinato agli ignari telespettatori. Ma un ricercatore serio, sempre che ne abbia voglia, deve lavorare – oltre che beninteso su prove e documenti – sui numeri positivi, non su quelli negativi.
I miei calcoli sono iniziati con alcune considerazioni preliminari concernenti fatti ampiamente notori. Innanzitutto, alcune centinaia di militari della Acqui rimasero a Cefalonia e sul continente greco aggregati ai locali partigiani. Inoltre, moltissimi altri militari della Acqui tornarono in Patria a guerra finita dai campi di
prigionia, come del resto avvenne alla massima parte dei componenti delle altre Divisioni italiane che in Grecia
avevano gettato le armi dopo l’8 settembre: e mai sospettarono che il loro mancato “avviso di rientro”, ovviamente noto all’Autorità militare, sarebbe stato –come fu- interpretato come prova della loro morte.
Proseguendo, ho esaminato l’unico Elenco Caduti esistente che fu pubblicato dall’Associazione naz. Reduci, Superstiti e familiari della divisione Acqui denominato ‘ONORE AI CADUTI” che riporta 3.842 nominativi come
Molti nomi erano però riferiti ad altri contesti e teatri di operazioni: inoltre, come “Caduti di Cefalonia” è logico che si debbano intendere coloro che a Cefalonia morirono per mano tedesca – in combattimento o fucilati – e va specificato chiaramente “morti in combattimento o fucilati”. Ad essi non bisogna poi aggiungere artatamente quanti, purtroppo, trovarono la morte nell’affondamento delle navi o nei campi di prigionia (e dalla “Legenda” di tale Elenco – che mediante l’adozione di “codici” indica per ciascun nome, oltre al grado rivestito, data, luogo e modalità della morte – è possibile desumere quanto ora detto).
Adottando questi criteri, la cifra risultava di circa 1.620 militari “morti in combattimento o per fucilazione”.
Ho poi rinvenuto negli Archivi dell’Ufficio Storico SME un documento ufficiale in forma di Tabulato – proveniente dal Ministero della Difesa, Dir. Gen. Leva, Div. VII – intitolato “Documentazione completa relativa ai Caduti e Dispersi nel corso del Secondo Conflitto Mondiale inquadrati nella Divisione Acqui e relativi Reparti di supporto” e contenente 4.666 nominativi, anche qui con gli stessi “codici” (1).
Dal suo esame, escludendo ovviamente i Caduti prima dell’8 settembre (Guerra d’Albania ecc.) ed anche quelli dopo il 25/9/43 quando cessò la rappresaglia contro gli ufficiali, il calcolo finale dei “morti in combattimento o per fucilazione” risulta di 1.647 unità e ciò prova una sostanziale corrispondenza tra i due documenti.
Il dato potrà variare, ma non di molto, perché il Tabulato, pur ufficiale, qualche dubbio lo ha generato – non abbiamo difficoltà ad ammetterlo – malgrado il nostro accurato controllo (basta un semplice e inevitabile errore di stampa, o di trascrizione, su un nome, un codice, un luogo o modalità di morte). In ogni caso, queste sono le cifre, e questi a mio avviso sono i Caduti di Cefalonia. E dovrebbe anche – all’interno delle medesime – distinguersi tra chi è caduto in combattimento e chi invece è stato ucciso, meglio dire assassinato, dopo la resa chiesta alzando le mani o gettando le armi da singoli militari o dopo quella ufficiale avvenuta il 22.(quella ufficiale chiesta con bandiera bianca o quella chiesta, gettando le armi, anche da singoli militari).
In questo secondo caso, e solo in questo secondo caso, si può parlare di eccidio o di martiri. In tutti gli altri di militari morti o fucilati in combattimento ma pur sempre durante le ostilità e non dopo.
Il prof. Rochat, ritenuto un autorevole e capace storico di Cefalonia, che vide prima di me i Tabulati li definì inaffidabili (forse perché il dato numerico complessivo era di molto inferiore alle cifre da lui fatte in precedenza) continuando nel tempo a ondeggiare per dir così sulle cifre (prima 6.500 in totale; poi 3.000 annegati e 5.000 uccisi sull’isola; infine 1.500 annegati e 6.500 uccisi sull’isola) ma di recente – forse dopo aver letto il mio libro – ha così risposto ad un giornalista che lo intervistava: “Le cifre di 9 o 10 o 11 mila morti sono cifre fatte da gente che non ha senso storico e somma tutte le cifre possibili”. Ciò mi rallegra per la provenienza di tale dichiarazione da un illustre cattedratico che fino a settembre 2005 sostenne –senza fornire prova alcuna- cifre enormemente superiori e mi auguro che con il tempo anch’egli scenda ancora. In fin dei conti è segno di intelligenza riconoscere di aver sbagliato e confido che molti ne imitino l’esempio.

Massimo Filippini
21 aprile 2007

(1) I dati contenuti in tale Elenco hanno trovato di recente conferma in quelli esistenti nell’Ufficio ALBO D’ORO del Ministero Difesa sito in Roma via Sforza 4/b dove invito gli scettici e i facili critici a recarsi per apprendere che i nostri Caduti –a Cefalonia- furono 1. 639 (MILLESEICENTOTRENTANOVE) ED EVENTUALMENTE rivolgere le loro lamentele o insulti a tale Ufficio e non allo scrivente.
(2) Altri insulti e/o aspre rampogne potranno altresì essere indirizzati alla Procura Militare della Repubblica presso il Tribunale Militare di Roma per aver scritto -sulla base della Consulenza d’ Ufficio (CTU) del prof. Carlo Gentile- nella Richiesta di Rinvio a Giudizio dell’ex s. ten. O. Muhlhauser che incardinò il processo a suo carico per le sue responsabilità negli omicidi di nostri Militari poi estinto per la sua morte, quanto segue: “(…) ”Perché, durante il secondo conflitto bellico mondiale, essendo in servizio nelle forze armate tedesche con il grado di sottotenente (…) nei giorni dal 22 al 24 settembre 1943, asseritamene dando esecuzione ad un Ordine proveniente dal Fuhrer con il quale si disponeva inizialmente l’uccisione di tutti i militari italiani che ‘avevano prestato resistenza attiva o passiva o che si erano uniti al nemico’, poi da limitarsi esclusivamente al Comandante della Divisione, Gen. Antonio Gandin ed a tutti gli Ufficiali in quanto considerati traditori dell’alleanza tra l’Italia e la Germania (…) concorreva (…) alle operazioni di fucilazione (…).

(E io che cosa ho detto e scritto ? )

Massimo Filippini

1 ottobre 2010

NB: Allegate pagg. 1 e pag. 3 della Richiesta di Rinvio a Giudizio. Quest’ultima evidenzia tra i mezzi di prova il mio libro I CADUTI DI CEFALONIA: FINE DI UN MITO

Gli altri Documenti citati sono TUTTI facilmente reperibili presso gli Enti Militari o gli Uffici Giudiziari menzionati.

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