Mutilazioni genitali femminili. Il Senato approva una mozione per la messa al bandodi Ilaria Donatio
“La riunione ministeriale alle Nazioni Unite è andata benino”. Dice proprio così – “benino” – la vicepresidente del Senato, la radicale Emma Bonino. Solito stile asciutto, sobria come sempre, anche nel comunicare quello che – aggiunge subito – è un “passo di enorme importanza verso la definitiva messa al bando delle mutilazioni genitali femminili”.
Il 22 di questo mese, a New York, l’Italia e l’Egitto hanno promosso un incontro dei ministri proprio per “raccogliere il consenso politico necessario a depositare una risoluzione europea” che sia adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Obiettivo: porre fine a questa pratica di “controllo della sessualità”, antichissima e violenta.
Una pratica di cui sono vittime oltre 150 milioni di donne nel mondo, secondo i dati dell’Organizzazione mondiale della sanità, e più di 3 milioni di bambine, dai cinque agli undici anni, costrette a subire, ogni anno, interventi che comportano la mutilazione – totale o parziale – degli organi genitali. E non per ragioni terapeutiche.
La sede di Torre Argentina è piena di giornalisti, alcuni diplomatici e molti attivisti delle organizzazioni non governative: tutti presenti alla tavola rotonda promossa da No peace without justice – Non c’è pace senza giustizia. L’associazione, che lavora per la protezione e la promozione dei diritti umani ed è legata al Partito Radicale, ha sede proprio accanto al palazzo di vetro dell’Onu, a New York: una sentinella che vigila sulla democrazia, lo Stato di diritto e la giustizia internazionale.
Accanto alla Bonino, tutte le donne di questa battaglia: c’è Elisabetta Belloni, direttore generale Cooperazione allo sviluppo del Ministero degli Esteri, Mariam Lamizana, presidente del Comitato Inter-Africano contro le pratiche tradizionali, Ndèye Soukèye Gueye, a capo del Dipartimento della Famiglia senegalese, Khady Koita, fondatrice e presidente dell’associazione senegalese La Palabre, Marie Rose Sawadogo del Burkina Faso, segretaria del Comitato Nazionale di lotta contro la pratica dell’escissione, Suzanne Diku, ginecologa al San Gallicano e presidente dell’associazione delle donne congolesi.
La prudenza della Bonino è presto spiegata: “L’esperienza della moratoria della pena di morte ci ricorda che il cammino è in salita, ma è stato fatto un passo vero”: la risoluzione deve essere “depositata entro ottobre. E sarà discussa a dicembre, in plenaria, la sezione dedicata ai diritti umani”.
Perché ha tanta importanza concordare una strategia allargata, in vista della risoluzione Onu? “Si tratta di una battaglia per difendere, non solo un generico diritto alla salute, ma lo stesso diritto fondamentale all’integrità della persona. E non ci possono essere paesi che combattono questa battaglia e paesi che se ne stanno a guardare: per questo è stato importante che alla riunione fossero presenti paesi come Gibuti, Burkina Faso, Costa d’Avorio, Mauritania che hanno dato il loro sostegno all’iniziativa: sappiamo però che ce ne sono altri che l’apprezzano, come il Mozambico, lo Yemen, il Benin”.
Per la prima volta, spiega Bonino, “le donne non si limitano a fare il loro lavoro tra i villaggi, sul territorio ma a chiedere le leggi: cioè, a chiedere una situazione giuridica che sia chiara per tutti”.
Certo, non basta: il Burkina Faso, ad esempio, ha già una legge che le vieta, ma proprio per questo, molti si spostano per fare queste operazione in Malì. Eppure, molto è stato fatto negli ultimi dieci anni: “Su 29 paesi maggiormente interessati alle mutilazioni genitali femminili, in 19 sono in vigore leggi che le proibiscano: più o meno applicate, più o meno aperte, più o meno inclusive”. Ma ancora c’è da lavorare. E non solo lontano da noi.
Esiste un ritardo, tutto europeo e, più in generale, occidentale, dovuto al fatto che fino a poco tempo fa, queste pratiche non erano ancora conosciute da noi. In Italia, secondo l’Istat, ci sono in tutto 110mila donne provenienti da paesi dove si praticano le mutilazioni genitali, mentre sono circa 35mila le donne vittime di interventi di asportazione parziale o totale dei genitali e quattromila le bambine. Oltre a loro, sono ben mille e cento le bambine considerate a rischio, potenziali vittime.
“Secondo una norma sociale sorretta da credenze ben radicate in 28 paesi dell’Africa, ma anche in Asia, Medio Oriente e India, una donna degna e rispettosa non dovrebbe avere pulsioni sessuali”, spiega Diku, che a Roma ha fondato un’associazione delle donne congolesi, Tam Tam d’Afrique.
Questa pratica varia da Paese a Paese, a volte da regione a regione: “Spesso, le mutilazioni – che possono consistere in “semplici” abrasioni o in vere e proprie asportazioni o ablazioni dei genitali – comportano, sul piano medico, l’esposizione a gravi rischi per la salute della donna”.
Parliamo, sottolinea la Diku, di un “controllo della sessualità femminile, presentato come forma di salvaguardia della vita del nascituro”: la clitoride, infatti, è vista come presenza malefica e rischiosa per il parto. Così come tutti i caratteri sessuali secondari sono considerati attributi che deturpano la femminilità. Questo induce le madri a far praticare la circoncisione, maschile e femminile, “già due settimane dopo la nascita, oppure intorno ai cinque anni o, ancora, in corrispondenza dei riti di iniziazione, quando il bambino passa dall’infanzia all’adolescenza, verso gli undici anni.
“Sono riti che si richiamano a credenze molto antiche e che sono difficili da vietare dall’oggi al domani”, dice Suzanne Diku che, al San Gallicano, dove lavora come ginecologa, incontra spesso donne e bambine mutilate: “Molte volte, in Italia e nei paesi di immigrazione, si ricorre a una sorta di intervento simbolico: attraverso una piccola incisione e la caduta di una goccia di sangue, i genitori si sentono assolti dall’obbligo di osservare una norma sociale”. Assurdo? “Le sembrerà strano ma è come se venissero da lei e le chiedessero di andare in giro vestita con la pelle di leopardo: avrebbe difficoltà vero?”.
Non è solo una questione di comportamenti sociali, dunque. Ma ha a che fare con la stessa percezione che ciascuno ha di sé. Ed è interessante come, nei paesi africani, quello che è “sociale” sia anche “identitario”. E “una “trasformazione sociale” coinvolge la stessa “identità” del gruppo attraverso il singolo. Così, la pratica delle mutilazioni non è solo una questione privata: certo, incide sul corpo della donna violata, ma implica la creazione di una nuova identità del gruppo. Così, “la ragazzina che è non mutilata, vedendosi respinta dal gruppo a cui appartiene, si sente costretta a chiedere la mutilazione”.
“Ecco perché”, sostiene Diku, “è importante che avvenga una presa di coscienza delle conseguenze, non solo mediche, ma anche psicologiche e sociali che queste pratiche comportano”.
Il tema, dunque, riguarda lo stesso diritto fondamentale di “disporre del proprio corpo”, soprattutto quando questi interventi “decisi dal gruppo sociale”, sono eseguiti sul corpo di minori, la cui volontà non esiste. “Ogni volta che per decisioni di altri, un essere umano subisce violenza, proprio come quelle adolescenti mutilate, perché le madri – vittime a loro volta di un ordine sociale voluto dagli uomini – hanno voluto garantire alle figlie una vita nel gruppo, ogni volta, si viola il diritto alla vita”.
E allora Suzanne Diku parla anche degli stupri militari, commessi come tecnica di guerra, nel suo Congo. La voce un po’ trema per la rabbia e il tono sembra sofferente. “Succede in tutte le guerre che le donne siano stuprate dal nemico: ma quando lo stupro diventa una violenza sistematica, si deve parlare di femminicidio. Violentare una vecchia sdentata o una bimba di 5 anni è una strategia di guerra, messa in atto da gruppi di militari che scendono nei villaggi per occupare le terre”.
Da un po’ di tempo circola la notizia che si vorrebbe assegnare un premio Nobel per la pace a una donna africana: “Che senso ha quando veniamo sventrate?”, chiede con rabbia Suzanne, “che senso ha? sono stanca delle proposte generose e senza senso dell’Occidente”.
È “lo stesso Occidente”, poi, “che fa pressioni perché il rapporto Onu sulla (così detta) Repubblica democratica del Congo e sulla regione dei grandi laghi, non sia pubblicato: cos’hanno da temere? e perché, contro ogni evidenza, la guerra congolese è ancora presentata come guerra tribale?”.
Poi conclude; “La democrazia non si esporta secondo uno schema deciso da altri: è un processo scelto liberamente dal popolo, che deve interiorizzare valori, strutture e modalità di gestione. L’Occidente deve sapere che il cambiamento non avverrà senza di noi. E saremo noi a dirvi dove la vostra presenza (spesso preziosa e anonima) sarà necessaria”.
E alla fine, legge pochi versi scritti dalla missionaria comboniana eritrea, Elisa Kidané, membro del Sinodo africano: “Sei tu. Curva, piegata in piedi, accovacciata, china, sempre tu che curi che ami che soffri, che non ne può più, ma non cedi non molli, non ti fermi e non ti arrendi […] Parlo di te di me di noi, che insieme, da sole, inventiamo tutto[…] Curve nei campi, alla fermata del tram della sopravvivenza, chine sull’umanità”.