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Un libro tibetano per non temere la morte

“Erano impauriti, non hanno mai appreso quello che ho imparato: sconfiggete la paura della morte e accogliete la morte della paura”
George Gordon Liddy
“Chi è ossessionato dalla morte, a causa d'essa diviene colpevole”
Elias Canetti

Il Bardo Tödöl è un testo che Giuseppe Tucci traduce “Il libro della salvazione”, oppure “Il grande libro della liberazione naturale attraverso la comprensione dello stadio intermedio” e invece Evans Wents, che per primo lo tradusse in inglese nel 1927 e lo divulgò in Occidente, gli diede il titolo più suggestivo di “Libro tibetano dei morti” e da allora è conosciuto così. Redatto in forma di breve trattato iniziatico, “Il libro tibetano dei morti” è una summa del sapere esoterico, in cui si tratta diffusamente di ogni possibile aspetto della via tantrica alla liberazione dal ciclo infinito di nascita e morte, un'approfondita descrizione del processo di morte ricavata dalla vasta letteratura tibetana sullo yoga supremo. Oggi il Tibet, a causa del materialismo impostogli dalla Cina, che sta rinnegando anche il proprio passato e quindi anche i propri archetipi, o dall'India, ugualmente Occidentalizzata, si sta lentamente dissolvendo, sia come realtà geografica che come realtà antropologica. Tuttavia questo Tibet continua a vivere come una grande aspirazione all'eterno mistero, in un'epoca, povera come la nostra, segnata dall'assoluta mancanza di misteri e dalla smitizzazione. Ci dice un grande studioso, Detlef-I. Lau, che il Tibet antico, con la sua letteratura, i suoi cerimoniali e le sue convinzioni, ci indica una via di redenzione che salva ciò che è essenziale e che non può essere perso. Il Tibet, lo vediamo, sta entrando nel bardo; noi però sappiamo che questo è solo uno stato transitorio e che nulla di ciò che è essenziale e vero va mai veramente perduto. Come scrive il monaco Thupten Nyim, bardo è una parola tibetana, composta da “bar” che significa “fra, che sta in mezzo” e “do”, ovvero “posto, isola”. Così bardo può essere tradotto “il posto che sta in mezzo” o “stato intermedio”. Il termine bardo è usato per descrivere i passaggi fondamentali attraverso i veri livelli di esperienza che costituiscono il processo di acquisizione di un corpo fisico e reincarnazione. Ci sono molti livelli di comprensione del concetto di bardo. Gli insegnamenti del bardo riguardano la continuità e la natura persistente della mente e dell’esperienza. Queste istruzioni si riferiscono direttamente alla vita come alla morte. Se riusciamo a riconoscere ciò che accade proprio adesso mentre siamo vivi, potremo guardare avanti con sicurezza. Secondo lo spiritualista sincretico Edgar Cayce, il Bardo, ovvero il periodo che intercorre tra un'incarnazione e l'altra, assume un ruolo chiave nel processo evolutivo animico: in questa fase, abbiamo, infatti, la possibilità di rivedere i nostri progressi e di definire le opportunità di crescita successiva, sulla Terra o su altri pianeti o stelle del Sistema Solare. Le nostre azioni, intenzioni, pensieri, desideri e decisioni del presente plasmano e ridefiniscono istante per istante i contorni del nostro futuro in svolgimento. Siamo co-creatori della realtà che sperimentiamo. Ritroviamo questo concetto anche tra i sufi persiani del XII secolo: essi attribuivano molta importanza alla visualizzazione del pensiero, in grado di alterare e riplasmare il nostro destino. Definivano tale sottile sostanza del pensiero alam almithal. Secondo i Batak dell'Indonesia, parimenti, è il pensiero, il tondi, a determinare tutto ciò che una persona sperimenta. Il tondi trasmigrerebbe successivamente di corpo in corpo. I mistici tantrici tibetani, per analogia, sostenevano che tsal, ovvero la sostanza dei pensieri fosse costituita da onde energetiche prodotte dalle azioni mentali. Anche Yogananda suggeriva che la volontà era in grado di materializzare i pensieri anche in forma di esperienze della dimensione materiale. Per questo consigliava alle persone di visualizzare il futuro che desideravano esperire e di caricarlo con l'energia della concentrazione. La moderna teoria dell'universo olografico di Bohm ci sostiene ulteriormente ricordandoci che la psiche partecipa alla realtà fisica, nella quale si esprime sotto forma di sincronica sintropicità, usando la terminologia dello stesso studioso. Il bardo, il passaggio, genere le basi per questa consapevole prosecuzione, attraverso molte vite. Il discutere di eutanasia, di testamento biologico, di predeterminazione del momento in cui “lasciarsi andare” ha fatto venir meno uno dei tabù più radicati nella cultura moderna. Il tabù della fine della esistenza fisica: quella reticenza a parlare schiettamente di morte che si manifestava nello stesso linguaggio cifrato dei necrologi. “E’ mancato all’affetto dei suoi”, “è venuto meno…” erano le formule eufemistiche per evitare di nominare il convitato di pietra. Oggi invece si invoca il diritto di morire “al momento giusto” o il dovere di accettare che il trapasso avvenga senza forzature. Allo stesso tempo la cultura new age ha favorito la diffusione di testi che affrontano il tema della morte in una prospettiva “gnostica” e la stessa ricerca scientifica, in alcuni suoi filoni “di frontiera”, ha cercato di gettare uno sguardo se non proprio sull’aldilà, almeno su ciò che accade in prossimità della morte. È interessante capire fino a che punto gli studi sulle esperienze di pre-morte condotte ad esempio dal medico americano Moody si concilino con antiche trattazioni che illustrano le tappe del viaggio iniziatico per eccellenza: quello che conduce alla vita ultraterrena. Il libro tibetano dei morti risale all'VIII secolo d.C. ed è stato composto per aiutare chi si accinge a trasmigrare di vita in vita e ad affrontare, in piena consapevolezza, questo cruciale momento. Il Bardo Thodol, questo il titolo originale, fu composto in sanscrito, come detto, dal grande maestro Padma Sambhava, nell’VIII o nel IX secolo, per i buddhisti indiani e tibetani, ma fu da questi occultato e venne riportato alla luce solo nel XIV secolo dallo “scopritore di tesori” spirituali Karma Lingpa. Tra i primi a commentare in Italia questo sconcertante manuale di viaggio fu, negli anni Trenta, l’orientalista Giuseppe Tucci. Da allora in poi, e soprattutto negli ultimi anni, si sono succedute a ritmo frenetico riedizioni e commenti sempre nuovi. Grazie anche ai suoi versi di commovente bellezza, il libro costituisce un raro messaggio di saggezza, una guida completa all'esistere che insegna a trasformare in profondità la nostra realtà quotidiana. Il libro tibetano dei morti è una delle più imponenti opere della cultura di tutti i tempi, uno dei testi della spiritualità orientale che ha avuto maggiore influenza anche sul pensiero occidentale. Esso raccoglie l'insegnamento sulla vita e la morte predicato dal grande maestro Padmasambhava, figura semileggendaria e fondatore del buddhismo tibetano. Ancora oggi, dopo oltre mille anni, questo libro presenta una delle descrizioni più intense dei passaggi che precedono e seguono la morte. L'importanza di questo libro è dovuta soprattutto al fatto che esso è un lavoro serio ed approfondito sotto il profilo scientifico (profondità che manca spesso ai rappresentati del mondo accademico); e risulta inoltre più coinvolgente delle considerazioni pseudo- occultistiche e talora fantasiose che spesso vengono spacciate sotto il nome di “Tibet”. Al contrario di molti trattati popolari benché opinabili dal punto di vista scientifico (vedi “Shangri-La”), questo libro non sembra interessante, originale o esotico al primo impatto. Tuttavia, mano a mano che lo si legge, si ha sempre più l'impressione di venir introdotti a una visione della realtà che ci informa non solo sul Tibet ma anche su noi stessi, su aspetti sconosciuti del nostro Io, che ad un tratto non ci appare più tanto solido e sicuro. In esso Troviamo sorprendenti paralleli nell'Occidente cristiano, per esempio nel concetto di “capacità di operare sull'anima dopo la morte” di Tommaso d'Aquino, che corrisponde in forte misura al “karma” indiano. Dato che il Libro tibetano dei morti è strutturato su simboli archetipici, l'autore non trova naturalmente difficoltà a mettere in rapporto molti di questi simboli col materiale ereditario filogenetico di Freud e con gli archetipi di Jung. Anzi, a suo avviso le attuali teorie psicologiche trovano conferma in molte esperienze segnalate in Tibet, che trapelano spesso nell'umana esistenza come realtà intuita. Per il Lauf l'intera storia dello spirito è una prova del fatto che anima e coscienza sono molto di più della mera e transitoria corporeità. Particolarmente interessante è infine la sua constatazione che, siccome il mondo altro non è che coscienza (nell'altro del resto sarebbe accessibile a noi), esiste anche una coscienza di base, un magazzino di tutte le impressioni, una sorta di oceano che, agitato dal karma, lascia emergere sempre nuove impressioni. Avviene una contrazione, una riduzione al puro inconscio, in un'altra dimensione, prima che dalla potenza primordiale possa sorgere una nuova coscienza? Lauf giustamente non si addentra in speculazioni del genere perché potrebbero portare alla formazione di idee invece che di realtà. In ogni caso, già le teorie di un'esistenza trascendente, sono di per sé realtà psichica anche se la ragione tende a respingerle. La costruzione di mondi trascendenti è già una realtà di cui val la pena occuparsi. Concludendo si può dire che il contrasto fra morte e vita viene qui relativizzato come raramente è stato fatto in Occidente; lo hanno fatto solo grandi mistici, quale era per esempio Rilke, che ci dice che spesso gli angeli non sanno se si trovano tra i vivi o tra i morti. Per quale motivo un testo arcano, frutto di una mentalità assai diversa da quella occidentale, affascina così tanto? Forse per il suo modo “soggettivo” di porre il problema dell’aldilà: il Bardo Thodol insegna che alla morte ogni uomo è posto di fronte al mondo ultraterreno secondo il punto di vista coltivato nella propria religione. Per il buddhismo non esiste infatti un solo paradiso, ma tanti quanti sono gli esseri illuminati, perché ciascuno di essi ha la capacità di creare con la mente una “terra pura”. Se il cristiano avvicinandosi alla morte incontra il Cristo e l’indiano incontra l’amorevole Vishnu, non vi è dunque da stupirsi. Il Bardo Thodol invita a “non accontentarsi” di queste visioni religiose, ma a immergersi in una Luce più profonda, anteriore, che precede ogni forma e nella quale ogni manifestazione si discioglie. Il “Bardo Thodol” è un grande poema della luce. La “luce” è infatti il grande esorcismo alla paura della morte, che terrorizza gli adulti così come il buio terrorizza i bambini. Il Bardo Thodol assicura che il morire è un nascere alla luce, non uno sprofondare nella notte. E invita a “stare calmi”, a non cedere a spaventi o a lusinghe ultraterrene. Il passaggio dal buio alla luce è proprio il tema che attraversa le “testimonianze” raccolte dal medico americano Moody tra coloro che sono stati sul punto di morire. Moody ha classificato, con spirito baconiano, una serie di costanti (ben quindici) nei racconti dei “ritornati”: il paziente “sente” i medici che annunciano la sua morte, guarda il suo corpo dall’esterno; sperimenta una sensazione di grande pace; attraversa un tunnel buio; sperimenta una avvolgente “Luce”. Questi racconti non possono certo proporsi come criteri di oggettività scientifica; tuttavia la loro ricorrenza stupisce. Anche Goethe sul letto di morte, estasiato, mormorò “mehr Licht!”: più luce; quasi a testimoniare il passaggio ad una chiarità superiore. La “ricerca” delle condizioni oltre la vita ovviamente non diventerà mai “scoperta”; tuttavia tale ricerca, sia che ricorra a testi arcaici ed arcani come il Libro Tibetano dei Morti, sia che ricorra ai metodi della moderna indagine scientifica, ha qualcosa di “faustiano”. L’uomo occidentale dopo aver rivolto il suo desiderio di conoscenza a ciò che sta oltre il confine geografico, oltre il confine dell’infinitamente piccolo (l’atomo) e l’infinitamente grande (lo spazio), vorrebbe oggi spostare con la conoscenza l’ultimo confine. Quello che appunto si pone “tra” le due antitesi più potenti e terribili. La vita e la morte. In definitiva si può dire, con Pincherie, che Il Libro Tibetano dei Morti (Bardo Todol), conosciuto come Libro dei Morti del Tibet, come il Per-Em-Rà, noto come Libro dei Morti dell'antico Egitto, insegna a non tenere la morte e vivere la vita in pienezza. La parola Bardo significa morte, trapasso. La parola Todol significa liberazione. Questo poema simbolico tibetano, in lingua sanscrita, parla di una tecnica iniziatica per compiere un viaggio interiore e giungere alla liberazione dalla paura della morte e malgrado la denominazione, quest'opera è scritta per i vivi e non per i morti.
Letture consigliate
– Annalisa A. (a cura di): Bardo. Il risveglio dal sogno. Meditazione dal Libro tibetano dei morti. Con 2 CD Audio, ed. il Cerchio della Luna, Roma, 2004.
– Laird T., -Gyatso T. (Dalai Lama): Il Mio Tibet. Conversazioni con il Dalai Lama, Ed. Mondadori, Milano, 2009.
– Lamparelli C. (a cura di): Padmasambhava. Il libro tibetano dei morti. Ediz. Integrale, Ed. Mondadori, Milano, 2007.
– Pincherie M.: Libro Tibetano dei Morti – Bardo Todol, Ed. Anrita, Roma, 2006.
– Thurman R.A.F.: Il libro tibetano dei morti, Ed. Corbaccio, Milano, 2000.
– Thurman R.A.F.: Bardo Thodol – Il Libro Tibetano dei Morti, Ed. Neri Pozza, Milano, 1990.
– Trungpa C., Fremantle F. (a cura di): Il libro tibetano dei morti. La grande liberazione attraverso l'udire nel Bardo, Ed. Astrolabio Ubaldine, Roma, 1997.
– Tucci G.: Il libro tibetano dei morti, Ed. UTET, Torino, 1986.
– Wallache A.: Le Cinque Meditazioni Tibetane dell'Autentica Felicità, Ed. Amrita, Roma, 2007.

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