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Bossi, l’apolla padana e il senso della storia

di Alfredo Castiglione

Se un cittadino italiano, abitante nel Nord dell’Italia, si fosse seduto davanti ad una tv, e avesse visto la scena di un gruppo di uomini e donne del Sud, sbracciarsi su un palco, alabardato con le bandiere del Giglio dei Borbone, con qualche bandiera degli Altavilla, qualche stemma della casata di Aragona e qualcuno di quella degli Angiò. E poi, su quel palco, avrebbe visto aggirarsi un’ampolla destinata ad un rito: cosa avrebbe pensato?
La scena si è svolta a parti invertite.
Il Nord dello sviluppo economico: tale scena surreale l’ha proposta. Con un palco ammantato da bandiere della Serenissima, nobile repubblica che per secoli ha dominato l’Adriatico, unite a bandiere verdi che si richiamano a non si sa quale popolo, perché sulla Padania, a differenza della Repubblica di Venezia, non c’è nemmeno il richiamo storico.
Il Nord dello sviluppo tecnologico, che propone una scena fuoriuscita dai secoli.
Cosa deve pensarne un cittadino del Sud, soprattutto quegli umanisti raffinati partoriti dalle scuole di pensiero di antiche università?
Si rimane allibiti.
È come se in Toscana rievocassero il Granducato dei Medici, e riproponessero un orgoglio del rinascimento fiorentino. È’ come se in Piemonte svettassero le bandiere dei Savoia, rivendicando la primazia sulle altre monarchie della storia d’Italia.
Ogni regione della nazione, anche le Marche dei Montefeltro, solo per fare un esempio, avrebbero da rivendicare un passato sotto il quale consorziare una serie di persone, per coltivare i propri interessi.
Ma chi lo farebbe?
Se abbiamo impiegato sangue, sudore e sacrificio, per unire la nostra nazione, con un ritardo sulla storia che ha dell’incredibile, ora ci battiamo per ricreare i localismi?
La Francia è diventata nazione nel medioevo, così l’Inghilterra. E in queste democrazie, sviluppate nei valori e nella cultura, non si troverebbe nessuno disposto a mostrare ampolle in nome dei Guisa, dei Valois, dei Tudor, di re Alfredo o di Carlo Magno. Eppure la cultura celtica, in Inghilterra, ha trovato terreno fertile.
Ma, comunque, di che stiamo a parlare?
In un mondo che va alla velocità del suono, ci si mette a riproporre il passato, onde ricreare regionalismi, convinti di creare benessere?
Dispiace quindi, che nella nostra nazione, vadano in onda i rimasugli della storia, spacciati per futuro.
Manca il senso di responsabilità, quello che mostra l’intellighenzia del Sud, che scevra dalle commistioni di certa sub-cultura, conosce la storia ed il suo senso. E dispiace dissipare parte del senso dell’Unita’ nazionale, per inseguire chimere d’utopia.
Perché l’uomo, in senso universale, è stato sempre un cultore dell’utopia. Essa aiuta a far sognare, a far credere che esista il demiurgo che risolve i problemi, che la vita possa migliore svoltando l’angolo.
Invece il senso della realtà, la cultura, la razionalità, aiuta a realizzare quel po’ di plausibilità che è davanti ai nostri occhi.
L’unione d’Italia è costata centinaia di migliaia di morti. Dai moti dell’Ottocento, alle battaglie di Garibaldi, a quella che è stata chiamata “la guerra dei cafoni”. Ovvero quegli uomini del disfatto Regno delle due Sicilie, durato cinque secoli, che si videro arrivare i Piemontesi del Generale Cialdini, a combatterli con 120.000 uomini, per issare la bandiera italiana-savoiarda su ogni pennone di Comune.
Quegli uomini di quel Regno, non capivano quel sopruso, ed hanno perso la vita in un numero mai stimato. Un numero elevatissimo.
E questo deve ancor più far riflettere sul quanto è costata, e quanto è stata complessa l’Unita’.
Basta leggere dettagliatamente i libri di storia del Risorgimento. C’è da rimanere sgomenti.

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