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L’occupazione si difende favorendo gli investimenti delle imprese

Anche alla luce di una serie di interventi che si sono sviluppati durante il mese di agosto, con particolare riguardo ai temi dell’occupazione, delle relazioni industriali, del precariato, sento il dovere di proporre alcune considerazioni, anche partendo da spunti di riflessione offerti da una serie di tre articoli dell’economista Michele Boldrin, apparsi sul Fatto Quotidiano.
E’ difficilmente contestabile che senza nuovi investimenti da parte delle imprese, in particolare quelle piccole e medie, che sono l’ossatura fondamentale della nostra economia non si crea nuova occupazione. Perché esse investano devono sussistere adeguate condizioni economiche di contesto e di relazioni industriali, tali da garantire il ritorno dell’investimento ed un profitto simile a quello dei concorrenti, che non sono solo italiani ma globali.
Se non si accetta l’idea che per uscire da questa crisi si rendono necessari cambiamenti strutturali e non temporanei non ne verremo mai a capo. Ciò vale in particolare per la politica, per l’imprenditoria e per il sindacato. Berlusconi e Tremonti invece hanno continuato a dire che l’economia andava meglio di quella degli altri Paesi, una certa parte dell’imprenditoria pensa di poter sfruttare l’occasione per tornare ai “padroni delle ferriere”, una parte del sindacato ritiene che tutto sia intoccabile ed immodificabile nei rapporti di lavoro.
Partiamo allora dal risultato prodotto dalla crisi: i patrimoni valgono meno, ma la contrazione delle aspettative sul reddito futuro induce le famiglie a ridurre i consumi, per qualcuna anche dei beni di prima necessità. L’altro dato inconfutabile è che la crisi ha spostato l’ombelico economico del mondo dall’area Occidentale (Usa + Eu) a quella Orientale (Cina + India), con l’ingresso nel mercato (anche del lavoro) di 3 miliardi d'indo-cinesi produttivi e poco costosi.
L’ulteriore conseguenza è la distruzione di aziende e posti di lavoro, specialmente a medio-basso valore aggiunto: una distruzione non temporanea in quanto legata a beni e servizi che non saranno più prodotti dalla nostra industria, poiché Cina e Far East saranno sempre più “la fabbrica del mondo”. Migliaia di imprenditori attuali e potenziali dovranno trovare altre “idee imprenditoriali” innovative: migliaia di lavoratori, di converso, dovranno cambiare lavoro e spesso dovranno apprenderne un altro.
Per questo gli incentivi del governo all’acquisto di beni si sono rivelati (automobili, lavatrici, ecc.) inutili, illusori, in definitiva uno spreco di denaro pubblico. Per molti di questi beni la competizione è stata vinta da produttori alternativi, localizzati nei paesi meno avanzati e tale fatto è ormai irreversibile. Per l’Italia la situazione è vieppiù peggiore che per gli altri Paesi europei poiché da quindici anni la sua industria perde costantemente in competitività rispetto ai suoi concorrenti europei tradizionali: in pratica il valore aggiunto per ora lavorata cresce meno che nel resto della UE. Secondo l’Istat la produttività del lavoro, in Italia, è oggi uguale a quella del 1997 mentre quella totale dei fattori è allo stesso livello del 1994!
Possiamo uscire dalla crisi dunque attraverso una ristrutturazione industriale, che non può che basarsi su una sostanziale mobilità intersettoriale del lavoro e con l’innovazione continua, sia dentro che fuori la fabbrica. Come rileva Boldrin “Processi di riconversione sono in corso in tutti i paesi del mondo, a velocità e con risultati diversi. Le politiche che contano sono quelle del lavoro e contrattuali, dell’istruzione superiore, dei servizi di (trasporto, comunicazione, finanza, legali), della ricerca scientifica, della regolazione dei mercati e dell’eliminazione dei monopoli. Tutti terreni, questi, su cui sia questo governo, che il precedente, che il precedente, che il precedente ancora non hanno fatto nulla… In questo quadro la politica fiscale conta nella misura in cui riesce a ridurre sia la propria complessità che il proprio carico su imprese e lavoratori.”
In tal senso le politiche del governo tedesco e cioè la riduzione delle tasse alle aziende, le misure tese a favorire la mobilità del lavoro, la cooperazione fra imprese e lavoratori nella riduzione dei costi,gli incentivi alla ricerca, la riqualificazione del sistema universitario sono in qualche modo un esempio da seguire, come ha sollecitato il Governatore della Banca d’Italia, Draghi.
In tale contesto deve essere inquadrato anche il caso FIAT: la denuncia di un modello di relazioni industriali che essa ritiene oggi incompatibile con principi di convenienza economica dell’investimento, per rendere possibile il quale offre condizioni di lavoro diverse rispetto al passato. Penso che in futuro avremo tanti casi Fiat, anche tra le imprese minori. Non è che si possano fare le barricate! Altro è stabilire una volta per tutte un principio: quando un’azienda riceve un contributo pubblico (Dio solo sa quanti ne abbia ricevuti al Fiat) sottoscrive un regolare contratto con lo Stato e se vuole liberarsi degli impegni assunti deve restituire integralmente quanto ricevuto.

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