Consigli di lettura per Tremonti

Così come Berlusconi farebbe bene a riflettere su molti passaggi del discorso di Fini di domenica (il fatto che in sostanza più Futuro e Libertà che l’attuale Pdl incarna gli ideali di una destra con autentica vocazione liberale ed europea e, ancora, che il “partito del predellino” è da anni sotto ricatto della Lega, ad esempio); il potentissimo e sprezzante ministro dell’economia Giulio Tremonti (il quale si permette di dare a Draghi del “bambino” e di dettare, con i cordoni della borsa, le politiche di tutti gli altri ministeri), dovrebbe proprio leggersi, mettendo da parte i “disegni” di Calderoli sul Federalismo (tenendo conto del precedente del “porcellum”), il “Processo agli economisti”, un bellissimo libro uscito in sordina (purtroppo), nel 2009 e recensito solo da Repubblica (testata per la quale l’autore lavora). Imparerebbe così, l’avvocato e commercialista Tremonti, che è proprio investendo sul welfare e l’innovazione e non preoccupadonsi in modo paranoico del debito pubblico, che si esce dai periodi di crisi e riscoprirebbe, per capire davvero la globalizzazione, Keyneson, che con la sua “Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta”, ha davvero gettato, nel 1936, i fondamenti del moderno pensiero macroeconomico. La principale argomentazione di Keynes è che, in un'economia funestata da una debole domanda aggregata (come nel caso della Grande depressione o nell’Occidente di oggi), con una sentita difficoltà a procedere verso la crescita del reddito nazionale, il governo – o, più in generale, il settore pubblico – ha la possibilità di incrementare la domanda aggregata, tramite la spesa pubblica, per l'acquisto di beni e servizi, fattore esogeno e finalizzato all'aumento di occupazione. Ciò potrà essere finanziato anche tramite politiche di deficit di bilancio; l'indebitamento pubblico, sotto determinate ipotesi, non aumenterà il tasso di interesse al punto di scoraggiare l'investimento privato. L’esatto contrario di quanto fa Tremonti, spesso in compagnia con moltialtri economisti di oggi. Il fatto è, anche in campo economico, che ci vorrebbe un rinnovamento generazionale e ci vorrebbero nuove idee, che sappiano trasferire al presente le cose migliori del passato, per uscire da questa palude di crisi crescente. Cesare Buquicchio su L’Unità, parafrasando Slavoj Zizek, un pensatore critico che si rivela particolarmente adatto a questi tempi, ci dice che oggi occorre non una sostituzione, ma una trasformazione. Non è l'operaio senza il capitalista, non è il giovane in un mondo in cui i vecchi si fanno da parte, che ci occorrono, ma è la trasformazione: smettere di essere operaio, smettere di essere giovane, smettere di essere di destra o di sinistra e, una volta compiuta questa negazione, operata questa discontinuità, ricominciare da zero e in modo nuovo ad essere operaio, giovane, di sinistra o di destra, ecc… E questo, naturalmente, con un nuovo disegno anche nell’economia, senza tagli che ricadono sempre sulle stesse classi medie, riduzione di stabilità e posti di lavoro, contrazione del welfare e dell’investimento su innovazione e ricerca. Cerrtamente Tremonti (e Brunetta, con al seguito Gelmini e Sacconi), diranno che in realtà ciò che serve è una orgogliosa e poco lamentosa “generazione dei tempi difficili”, per usare la definizione coniata per i giovani del primo dopoguerra (che, non a caso, in mancanza di risposte e narrazioni efficaci, si fece abbindolare dal fascismo). E altrettanto certamente per “l'immaginazione al potere” a “la verità al potere”, occorrerà ragionare su soluzioni pratiche per la politica, per l'economia, per il mondo del lavoro e tutto questo rischia di essere inadeguato se non si compie una sorta di rivoluzione in campo culturale, poiché tutto si accentra su una questione di modelli, di immaginario, di consapevolezza e di educazione e, quindi, di persone. Tremonti è lo stanco, presuntuoso rappresentante di un turbo-capitalismo trasformato in debitalismo che si sta avviando verso la sua dissoluzione, così debole ed esangue che già a dicembre del 1996 bastò un’incauta affermazione di Alan Greenspan, presidente della Federal Reserve, per creare il panico in borsa (affermò che i mercati finanziari erano stati sopravvalutati). E poiché, con questo stato di cose e con queste persone al potere, come scrive Kung, “la teoria del caos si può applicare anche in economia, con cause di per sé minime possono avere effetti devastanti”; accade che uno come Alan Greenspan assuma il ruolo di guru della deregulation, ma con l’avvento della crisi, si trovi a dover ammettere i suoi limiti: “Per esistere, serve un’ideologia. Il problema è se questa ideologia è corretta o meno”. Secondo il bel libro che consigliamo a Tremonti, per garantire un futuro sostenibile a tutta l’umanità e per evitare una tragedia mondiale, dobbiamo iniziare a progettare un’economia a misura di persone civili. A questo scopo segnaliamo al ministro un altro libro (Carlo Danolo: Sostenere lo sviluppo. Ragioni e speranze oltre la crescita , Mondadori, 2007), in cui si parla di Gerald Celente, un economista molto giovane, molto intelligente, molto originale e molto indipendente, che ha pronosticato il collasso del dollaro e della finanza bancaria e il ritorno a forme monetarie fondate sull’oro e sui giovani. Lo stesso ci dice anche che, inoltre, la rivoluzione economica riguarderà sempre di più anche il mondo delle aziende private e già oggi molte aziende puntano sulla nuova filosofia del marketing partecipativo basata su questi principi: evangelizzazione e informalità (attraverso l’interattività e i rituali), valorizzazione dei consumatori più appassionati, educazione capillare (chi insegna di più vince), dominio del passaparola e trasparenza nei messaggi e nei comportamenti. Oramai il concetto di comunicazione persuasiva è superato e la nuova comunicazione pubblicitaria progetta catene di comportamento basate sulla partecipazione on-line (un altro libro da consigliare al ministro dell’economia, che sembra aver letto solo Sella, oltre ai libri che gli regala l’amico e mentore Umberto Bossi e cioè: Alessandro Prunesti, Social Media e comunicazione di marketing, Franco Angeli, 2009). Tremonti, poi, dovrebbe leggere con molta attenzione, il vecchio (ma con idee più giovanili delle sue); Sylos Labini (Paolo Sylos Labini: Un paese a civiltà limitata. Intervista su etica, politica ed economia, Laterza, 2006), che ci ricorda come crescita e sviluppo non sono la stessa cosa, anche se, spesso, la politica, senza distinzioni, parla di crescita, intendendo la crescita del PIL ed eventualmente dell'occupazione o magari anche delle entrate fiscali che ne conseguono. La letteratura economica e sociale, invece, ha da tempo problematizzato la nozione di crescita, specie in prospettiva globale, e lo statuto del PIL come misura del benessere. Per contro nelle culture politiche e nell'agenda della classe politica (soprattutto del Pdl), la questione è pressoché assente, non rappresentata, se non come tema “settoriale” e marginale. Infine, tenga conto il ministro che ha portato la disoccupazione giovanile italiana a livelli di una “piaga d’Egitto”, che gli studi scientifici hanno dimostrato che la creatività umana raggiunge le sue massime potenzialità negli individui dai 20 ai 40 anni. Quindi i Paesi che privano i giovani del potere lavorativo e decisionale saranno destinati a finire nella pattumiera della storia. E solo alcuni Paesi più fortunati godranno dei vantaggi di essere riciclati e sfruttati dalle nazioni più lungimiranti. Non si può non investire neanche un punto percentuale di pil su questi giovani e sull’innovazione e sperare di risolvere tutto a colpi di tasse, tagli ed economia virtuale e creativa (come i soldi che in teoria per L’aquila ci sono in abbondanza e nella pratica non giungono nelle casse del comune). Nel secondo volume de La ricchezza delle nazioni Smith condanna infatti il lavoro degli ecclesiastici, degli avvocati, dei fisici, dei letterati di ogni genere; dei giocatori, dei buffoni, dei musicisti, dei cantanti e dei ballerini d’opera, ecc., considerandolo improduttivo. Inoltre, nella Gran Bretagna della metà degli anni ’60, Nicholas Kaldor, economista di Cambridge di livello mondiale e consulente con un forte ascendente del partito laburista, lanciò l’allarme sul processo di deindustrializzazione. Secondo la sua teoria, lo spostamento, in atto al tempo, del valore aggiunto dall’industria manifatturiera ai servizi avrebbe provocato gravi danni in quanto l’attività manifatturiera, al contrario del settore dei servizi, seguiva un processo di avanzamento tecnologico. Riuscì persino a spingere il laburista James Callaghan, al tempo Ministro del Tesoro, ad introdurre nel 1966 una tassa sull’occupazione selettiva che imponeva un’imposta maggiore sugli impieghi del settore dei servizi rispetto a quelli del settore manifatturiero. In questo modo e con queste politiche, di cui Tremonti è l’erede, si è giunti allo stato attuale, ben descritto da Hervé Falciani sul Corriere della Sera del 28 giugno 2010: “Il denaro è diventato ormai una scrittura informatica, ma l’informatica non ha controlli. Questo significa che la finanza, che senza l’informatica non esiste, non ha regole”. Proponendo queste letture a Tremonti, ci auguriamo che il grande ministro possa realizzare che troppo spesso “il cervello è l’organo più sopravvalutato” (come diceva Woody Allen) e che oggi non ci resta che ammettete che il libero mercato è il sistema umano più sopravvalutato. Ma per cambiare davvero, dovrà rendersi conto che lui e gli altri della vecchia generazione (e concezione), dovranno mettersi da parte e dar spazio ai giovani, poiché è ormai palese che i Paesi che privano i giovani del potere lavorativo e decisionale, saranno destinati a finire nella pattumiera della storia. E solo alcuni Paesi, più fortunati, godranno dei vantaggi di essere riciclati e sfruttati dalle nazioni più lungimiranti e più ricche di fermento giovanile. Era questo che indicava Draghi e la sua non era certo una “bambinata”.

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