Un’emergenza che non fa notizia

di Alessandro Pallaro

“Le carceri scoppiano, gli istituti di pena non ce la fanno più”. Quante volte abbiamo letto queste parole? Quante volte abbiamo sentito parlare di carceri inadeguate, di strutture fatiscenti, di sistema ingolfato? Fu Papa Giovanni Paolo II che, nel giugno del 2000, iniziò a riaprire la questione dell'amnistia dopo anni di silenzio sul tema. Fu lui a intervenire sull'esigenza impellente che questo nostro Paese aveva di adottare misure deflattive per un sistema penitenziario che stava andando verso il pieno collasso. Allora, i numeri erano stratosfericamente lontani da quelli che ci troviamo a rappresentare ora. Lui, però, parlava di detenuti, di persone rinchiuse, con un pensiero a quanti, famiglie, amici ma anche agenti penitenziari, vivevano la dimensione carceraria come una realtà quotidiana. Dal 2000, il fascicolo “amnistia” ha sfiorato gli scranni vellutati del Senato della Repubblica giusto qualche volta, per approdare definitivamente nel 2006 (dopo 6 anni di tentennamenti) sul tavolo del Governo, col beneplacito della parte avversa e il dissenso di Antonio Di Pietro e di qualche fedele della destra più intransigente. Sia ben chiaro: di clemenze in passato ce ne sono state, e tante. Di solito, tra una legislatura e l'altra. Ma sempre accompagnate dalla totale e piena consapevolezza politica che quel gesto rappresentava. Nel 2006, l'indulto – che, ricordiamo, non elimina il reato, ma solo la pena del condannato – ha segnato un'epoca di grandi speranze, ha ipotecato un'era di forti cambiamenti. Quel progetto di legge ha svuotato per metà gli istituti di pena. A beneficiarne sono stati poco più di 27 mila persone, sulle 59.523 che erano i detenuti al 31 dicembre del 2005, alleggerendo sì il sistema, ma ingolfando le aule giudiziarie vista la perentorietà di celebrare comunque i processi secondo il codice di procedura penale. Due anni di cambiamenti e stravolgimenti politici, ma l'emergenza oggi è ancora lì. Un appuntamento mancato, quello del 2006, tanto vano da polverizzare, in soli 24 mesi, tutto il vantaggio ottenuto da un provvedimento che aveva l'ardire di recuperare carenze strutturali, disguidi organizzativi e dare una boccata di ossigeno al sistema. Ma certe 'cambiali', si sa, in un modo o nell'altro bisogna saldarle. Le hanno pagate, come al solito, i cittadini: detenuti e agenti penitenziari, reclusi e guardie o, se proprio vogliamo, 'camosci' e 'secondini'. Due realtà della stessa medaglia, due entità tipiche, agli antipodi di un 'guado' rispetto a quanti con il carcere non c'entrano assolutamente nulla. Ma è poi così vero che col carcere noi cittadini non c'entriamo assolutamente nulla? Dal 2006, ormai in pochi ne parlano, trattando il fenomeno senza conoscere veramente l'argomento: sono anni che sentiamo dire che la situazione è drammatica, che urgono provvedimenti. E c'è sempre il politico di turno che se ne viene fuori con la ricetta magica del momento. Del momento, appunto. Il disinteresse verso il problema carcerario rimane ancora oggi legato a una serie di fattori che comprendono il linguaggio (e chi utilizza quel linguaggio), l'analisi poco obiettiva dei problemi dei detenuti e degli operatori, la forte politicizzazione (schierarsi con il detenuto non sempre vuol dire schierarsi con il più debole) e il fatto che l'argomento non venga affrontato con un approccio unico: viene considerato solo l'ambiente e non anche i protagonisti che popolano quell'ambiente. Il problema del sovraffollamento – quella particolare condizione che attualmente stanno vivendo circa 68 mila persone, rinchiuse in spazi stretti e quasi asfissiaci – non buca il muro dell'informazione. A meno che non accadano casi di morti eclatanti, aggressioni, suicidi o episodi di automutilazione. L'essenza del problema sta tutta lì: una scarsa attenzione dell'opinione pubblica verso una dimensione troppo lontana dalla realtà che vive quotidianamente. Ma così stanno veramente le cose? Ora, direbbe qualcuno, che utilità c'è a parlare di carceri, che efficacia deriva dal sensibilizzare l'opinione pubblica verso un dramma che coinvolge comunque pochi soggetti? In fondo, quanta gente è interessata? Con un rapido sondaggio, proprio come farebbe la casalinga con le mele e le patate, noi di laici.it abbiamo calcolato che tra persone recluse, familiari, parenti e amici, avvocati, magistrati e personale dell'amministrazione giudiziaria, soggetti legati ad associazioni di volontariato, insegnanti, religiosi, esperti e consulenti, personale della Polizia penitenziaria e personale – a cui si possono aggiungere i familiari – oggi arriviamo a contare 700/800 mila persone legate al fenomeno. Ottocentomila cittadini del nostro Paese: poco più dell'uno per cento del totale della popolazione italiana. Il dato assume un valore ancor più significativo se confrontato con quello di altri settori della società civile, come la scuola o la sanità, che interessano praticamente a tutti. Pertanto, rispondendo al quesito di cui sopra: a chi interessa il carcere? A nessuno, probabilmente, se questo ragionamento lo proponiamo con il crudo metodo dei numeri. Ma se tentassimo un altro tipo di approccio, se imboccassimo tutt'altro percorso logico, ci accorgeremmo che il fenomeno può assumere altri connotati. Noi consideriamo il carcere come se fosse la nostra 'pattumiera'. In fondo, a livello sociale è così: emblematiche sono le espressioni attribuite a un detenuto come “rifiuto della società”. In questo caso, la questione assume un valore trascurabile, poiché nel 'menage' familiare occupa poco spazio a livello gestionale: ci si deve solo preoccupare di non tenere troppo a lungo la spazzatura dentro casa e di buttarla ogni santa mattina. Ma cosa succede quando i rifiuti si accumulano e magari si vive in un monolocale o in spazi ridotti? O non si consuma, con la paura di non ingolfare il piccolo appartamento e ci si mette nell'ordine di idee per essere più ordinati e puliti. A mali estremi, estremi rimedi: ci si trasferisce in un appartamento più grande. Intendiamoci, di spazzatura vera, in qualche regione del sud si è vissuta un'emergenza che adesso si direbbe del tutto risolta. Ma per il sistema carcerario, i numeri ci dicono che il problema è del tutto irrisolto e che, nel vivo della bella stagione, l'emergenza rischia di trasformarsi in tragedia (provate a immaginare in che modo vivono, a livello igienico-sanitario, 8 persone strette in una cella di pochi metri quadrati, soprattutto quando fa caldo…). I sovraffollati penitenziari italiani (come abbiamo detto, oltre 68 mila presenze su una capienza regolamentare di 44.236 posti letto e un limite tollerabile di 66.979 unità) ci dicono che la situazione non è più sostenibile. Ed è un bel po' che la situazione è così. Dall'ultimo provvedimento di clemenza, un'inesorabile e costante escalation di affluenza ha riportato di fatto i numeri ai drammatici standard del passato. E, paradosso dei paradossi: in passato si stava anche meglio. Ciò vuol dire che il limite, il punto di non ritorno, è stato più che superato. Non stiamo parlando solo di affluenza, ma anche di strutture comunque fatiscenti, di un 'turn over' che toglie sempre più personale di servizio. Gradualmente, ciò ha generato un sistema dove i suicidi si susseguono implacabilmente (dall'inizio di quest'anno, siamo arrivati già al 39mo) e di cui nessuno oramai di scandalizza, perché è normale, come normale è pensare che, per una discarica umana, l'unico provvedimento necessario sia quello di svuotare il pattume o costruire altri siti. La crisi carceraria è un'emergenza che non fa scandalo, perché non 'puzza', a differenza dell'emergenza rifiuti in Campania o a Catania. Non scuote le coscienze, non drammatizza, perché non se ne sente il 'lezzo'. Non si percepisce perché non è visibile: nessun cronista la racconta. D'altra parte, non si può andare sul posto, come accaduto a Napoli, e girare filmati per i vicoli dei quartieri spagnoli. Le telecamere non sono ammesse nei reparti di detenzione e, seppur qualche telegiornale entra nei 'bracci', ciò che vede è quello che l'amministrazione penitenziaria vuole far vedere, come se ci fosse una 'scaletta' già prefigurata: il detenuto che soffre, il poliziotto con le chiavi in mano, il disagio umano e sempre celle singole. Di detenuti tossicodipendenti non se ne vede l'ombra nei reportage, gli extracomunitari si ammazzano e si organizzano in bande, ma in tv niente, non se ne sa nulla. Ad ogni modo, il carcere non è una discarica a cielo aperto, non esistono persone che manifestano, non s'impedisce l'ingresso dei tir di raccolta, come è avvenuto a Chiaiano. Nelle nostre prigioni si racconta, da anni, sempre lo stesso disagio. Si racconta, ma non lo si risolve. La domanda allora ritorna prepotentemente: perché non rendere conto di ciò che accade lì, perché non portare avanti una battaglia di democrazia nei confronti di una politica cieca, che considera ancora la questione come fosse legata solamente agli spazi da costruire (il cosiddetto piano carceri)? Perché non esporre la condizione del detenuto come legata, a doppio filo con quella del poliziotto penitenziario? Perché non porre l'accento sulla sicurezza delle carceri quale questione di interesse nazionale, se non di sicurezza nazionale? Perché non sottolineare continuamente, come fosse un 'mantra', la condizione di vita di chi è costretto a ridursi a brandelli perché spera di essere portato in infermeria, di poter prendere degli antidolorifici o dei farmaci, o anche solo per poter fumare una sigaretta? Perché? Come ha sostenuto Adriano Sofri in una recente intervista pubblicata giorni fa su 'l'Espresso': “La realtà è che nelle carceri italiane c'è la tortura. Non in senso generico o metaforico, proprio in senso tecnico. A queste condizioni, anche senza botte o provocazioni volontarie, l'istituzione si configura come una tortura di Stato. Per cui, se esiste un torturato, esiste anche un torturatore. E il torturato”, precisa ancora Sofri, “a parte il detenuto può essere individuato di diritto anche nella figura dell'agente penitenziario”. Per quanto riguarda invece il torturatore, ci permettiamo di sostenere, insieme a Sofri, quanto sia necessario cambiare direzione e orientarci su altri soggetti che in questo Paese hanno un potere politico e con i quali, sia il detenuto, sia la guardia carceraria devono fare i conti. Autorità che non intendono, che non comprendono, che fanno del problema un puro e semplice argomento di discussione in sede di convegni. “Quella stessa gente che, per cattiveria o imbecillità – spiega Sofri – studia e attua leggi che spediscono in carcere persone che non ci dovrebbero andare (come per esempio la legislazione sulle droghe, quella sull'ordine pubblico e sull'immigrazione di recente approvazione in Parlamento). E che non prende alcuna misura per evitare la situazione tragica a cui le condanna”. Ci interroghiamo sull'utilità del carcere. Ma poi, molto perentoriamente, ci stupiamo del fatto che quel particolare articolo della Costituzione (art. 27, terzo comma) non venga più rispettato. Il carcere non 'buca', non interessa a nessuno, non fa scandalo, apparentemente, non investe questioni politiche primarie: il carcere non piace, perché non puzza.(Laici.it)

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