Riflessioni a sinistra

di Vittorio Lussana

Anche al fine di evitare l’ennesima estate costellata di astruse dichiarazioni antinazionaliste dei vari leader della Lega Nord, sarebbe il caso di addentrarsi nel merito di quel specifico dibattito relativo a quel particolare arcipelago culturale rappresentato dalla sinistra italiana. In essa, non possiamo non distinguere tre filoni generali e fondamentali: la sinistra laica, i socialisti e la sinistra marxista. Quest’ultima, oggi, si divide, a sua volta, in neocomunisti e post marxisti ‘gramsciani’. Tutti e tre questi filoni adombrano situazioni, vicissitudini storiche e ‘passaggi’ politici di carattere ben distinto, anche se, in precisi ‘momenti–soglia’, hanno saputo riordinare unitariamente i propri orizzonti strategici. Tuttavia, prima di analizzare i vari percorsi e riassestare, quantomeno a grandi linee, le diverse evoluzioni ideologiche salvando ciò che si può salvare e tralasciando ciò che non è più configurabile rispetto ai profondi mutamenti avvenuti nella società italiana, appare necessario riunire in un discorso unico ciò che la sinistra rappresenta e può rappresentare nel suo complesso. Essa, in Italia, ha vissuto un problema enorme: quello di una sovrastrutturazione ideologico-sociale ‘importata’, se non in molti casi e per lungo tempo indotta, dall’esterno. Le varie internazionali socialiste e comuniste hanno, il più delle volte, limitato l’autonomia e la libertà d’azione dei nostri movimenti progressisti nazionali, costringendoli a complicate evoluzioni di ‘non allontanamento’ rispetto ai sentieri dottrinali o alle congiunture politiche dettate dalla politica internazionale. Ma che tipo di atteggiamento, se un unico atteggiamento è possibile, si deve tenere oggi nei confronti della sinistra italiana? La riposta a un simile quesito non è delle più semplici. E ci costringe a un certo sforzo di ‘rovistamento’ nell’ambito più propriamente culturale di queste forze. Non tutto il marxismo italiano, ad esempio, è da rigettare. Così come ‘salvabili’ appaiono alcune interpretazioni di pensatori profondi e non necessariamente ideologizzati, come Antonio Gramsci, Giorgio Amendola e Pier Paolo Pasolini. Filippo Turati, Pietro Nenni e Bettino Craxi rappresentano i ‘mostri sacri’ dell’analisi socialista, mentre Giuseppe Saragat, Ugo La Malfa e Luigi Einaudi possono essere indicati come i punti di riferimento essenziali dell’area socialdemocratica e di quella laica italiana. Questo è il Pantheon attraverso il quale si potrebbero svolgere studi approfonditi sulle diverse ‘svolte’ e sui problemi storici effettivi dei movimenti politici di sinistra, anche se non tutti si ritrovano nella condizione di un avvenuto superamento definitivo di numerose contraddizioni. Comunque sia, la sinistra italiana può ancora definirsi il luogo della più profonda analisi delle maggiori tematiche di carattere socio–economico del nostro Paese, anche se non molto può ritenersi ancora valido delle vecchie ‘ricette’ econometriche del passato e la sua stessa esistenza può far quasi esclusivamente riferimento a un lavoro di raccolta ‘mutualista’ delle moderne contraddizioni sociali. Insomma, anche la sinistra, oggi, è costretta a chinarsi maggiormente sul versante dell’antropologia sociale quotidiana, dovendo rinunciare alle vecchie visioni utopiche spesso spacciate, in passato, come assolutamente oggettive. Vediamo, dunque, nello specifico, di riordinare i rispettivi bagagli culturali di queste tre forze. Fenomeno a se stante di tutto il panorama internazionale comunista, l’italo – marxismo non è esente da errori di formulazione sia sul piano politico, sia in termini socio – economici, per quanto alcune concezioni assai elasticizzate e strumentali della filosofia di Karl Marx possano ancora far credere a molti il contrario. Anzi, una lettura eccessivamente critica dell’evoluzione industriale e capitalistica dell’occidente, alla quale non sono corrisposti rimedi efficaci sul terreno concreto delle problematiche sostanziali dei singoli individui – così come delle tanto idolatrate masse – ha continuato a rappresentare il difetto principale anche della versione italiana del filone filosofico ‘marxiano’, tanto da portare Croce a considerarlo in quanto semplice sentimento di ‘solidarismo proletario’. Discendendo direttamente da una simile matrice culturale, senza considerare gli innesti di carattere ideologico operati da Secchia e Togliatti, ecco dunque che tale difetto di ‘intermittente incisività politica’ ha più o meno reso inattuale la versione ‘nostrana’ del comunismo, anche se questo tipo di fallacità può, beninteso, considerarsi talmente ‘ex nunc’ da non poter essere del tutto ‘sindacata’ ai pensatori intellettualmente più accorti di tale scuola. Infatti, alcuni importanti ‘salvataggi’ possono essere posti in essere. In primo luogo, quello della più ‘organicamente aperta’ delle menti comuniste italiane: quella di Antonio Gramsci. Curiosamente, come per Giovanni Gentile, anche per questo studioso sardo appare necessario operare una serie di ‘distinzioni filologiche’ in grado di ‘pulire’ la ‘cognizione di causa’ del suo pensiero dalle numerose contaminazioni ‘leniniste’ di carattere tipicamente ideologico. La visione culturale ‘gramsciana’, nella sua accezione scientificamente più valida, si delinea concettualmente – ovverosia senza i problemi di frammentarietà che caratterizzano alcuni passaggi dei suoi pur splendidi ‘Quaderni dal carcere’ – in un’opera specifica di contrapposizione tutta idealistica, nei propri presupposti culturali, con Benedetto Croce, intitolata: “Il materialismo storico e la filosofia di Croce”. E’ in questa riflessione, infatti, che lo studioso comunista riesce a elaborare una solida filosofia della prassi esattamente contrapposta a quella ‘crociana’, spesso addivenendo a conclusioni acutamente confacenti con una approfondita analisi storico-sociologica delle classi più povere delle popolazioni italiane. Nessuno meglio di lui riuscì a contrapporre, nella sinistra comunista, una visione efficacemente marxista della Storia italiana, generando un tale ampliamento di campo delle ottiche storiografiche da renderlo considerabile come uno dei più importanti pensatori della nostra Storia culturale. Nessuno, in Italia, era riuscito veramente, a parte qualche ‘buona intenzione’ di Labriola, a fornire una lettura della nostra Storia nazionale dall’angolo di visuale più basso e più sofferto: quello delle classi sociali meno abbienti, escluse da ogni genere di considerazione politica. Ciò, senza perdere di vista una concettualizzazione ‘tecnica’ di carattere eminentemente ‘idealista’. Solo Pier Paolo Pasolini riuscirà a proporre qualcosa di simile, molti anni dopo, nei campi della cinematografia, della letteratura contemporanea, della poesia e dell’analisi introspettiva delle forze sociali a lui contemporanee. In un certo senso, per quanto spesso interpretato strumentalmente dagli stessi comunisti italiani per finalità politiche di vario genere, il ‘riverbero’ culturale di Gramsci entra a pieno titolo nel campo delle filosofie ufficiali italiane da tenere in ampia considerazione, anche se ciò che è in lui fu spontaneo o equamente critico, in tanti comunisti ha rappresentato un’esclusiva metodologia di interpretazione della realtà. Fatto sta che, come anche per Pasolini, gli scritti di Gramsci, le sue formulazioni e la sua stessa valorizzazione strumentale del ‘leninismo’, così come l’intuizione dell’esigenza di una reale classe intellettuale italiana di carattere nazionale, diventano ‘magicamente’, anche se non misteriosamente, dei veri e propri ‘pugni allo stomaco’. La ‘magia’ è presto svelata: sia per Gramsci che per Pasolini, il segreto risiede non tanto nell’aver evidenziato meglio di altri determinate contraddizioni storico-sociali, quanto nell’aver fornito di esse una visione depurata da quelle caratteristiche di eccessiva ‘criticità rivoluzionaria’ che potevano rendere tali formulazioni, nel loro complesso, innaturali o ‘forzate’. E ciò, ragionando in termini etici e di pensiero, rappresenta uno sforzo talmente grande, soprattutto per chi determinati bisogni li ha provati e patiti personalmente in termini ‘esperenziali’ – Gramsci nella Sardegna della fine del XIX secolo, Pasolini nella Roma ‘piccolo borghese’ e classista di uno ‘sviluppo’ economico privo di valori – da non poterli escludere da una sincera e onesta forma di considerazione intellettuale. Per quanto ‘drammatica’ possa apparire, la visione ‘gramsciana’ mantiene fermi una serie di punti saldi. Come ad esempio il ‘cosmopolitismo’ di una classe intellettuale italiana che ha impedito la messa in cantiere di una coscienza e di una ‘egemonia idealistica nazionalpopolare’, accezione che sembra persino ‘fare le pulci’ all’internazionalismo comunista e che, soprattutto, pone il marxismo italiano su un binario di equilibrio umile, ma non mediocre, franco ma non supponente, disperato ma non ‘reattivo’ (o reazionario…). Una buona ‘visione dal basso’, in sostanza, è migliore, molto migliore di una qualsiasi ottica utilitaristica o ‘coattiva’, anche e soprattutto in senso ‘marxiano’. Altro punto saldo, che scava profondamente nella realtà antropologica italiana, è la denuncia ‘gramsciana’ del Risorgimento in quanto fenomeno storico limitato ai ceti abbienti, anticipando una tematica, quella della scarsa strutturazione socialpopolare del nostro processo unitario, di almeno una sessantina d’anni, arrivando altresì ad applicare con successo, in tale circostanza storiografica, lo schematismo marxista delle fondamenta economiche e strutturali necessarie allo sviluppo di nuove ‘sovrastrutture’ politico-culturali. Infine, l’ottica ‘interclassista’ basata sull’alleanza fra borghesia urbanizzata e campagna, in acuta concorrenza con il fascismo e con lo stesso cattolicesimo, insieme a un’efficace messa in evidenza della ‘questione meridionale’ italiana, anche se non sempre in maniera profeticamente adeguata, classificano Gramsci come uno studioso propositivo e un intellettuale coraggiosamente aperto all’individuazione di alternative ‘percorribili’ per il superamento concreto dei ‘nodi’ storici italiani più aggrovigliati, senza limitarlo sul classico piano di quelle alchimie eversive o meramente ‘tatticiste’ del marxismo più ortodosso. Gramsci, insomma, è stata la vera risorsa dei comunisti italiani insieme alla ribellione ‘sdegnata’ di Pasolini, all’apertura mentale di Giorgio Amendola e alla sensibilità umana di Enrico Berlinguer, mentre ben pochi meriti vanno oggi rimessi a chi, profittando del bagaglio culturale da Gramsci stesso lasciato, si è poi ritrovato nelle condizioni di dover radicare socialmente, in Italia, un Partito comunista ‘machiavellico’, fortemente ‘giacobino’ in molte delle proprie interpretazioni culturali. Per quanto concerne, invece, l’interessante filone socialista italiano, comprenderemo, per ovvie ragioni di semplificazione, ambedue le anime ideologiche dei vecchi Partiti, quello socialista e quello socialdemocratico. La scissione di Palazzo Barberini del 1947 portò alla divisione dell’ala destra del vecchio Psiup uscito dalla guerra di liberazione nazionale, da quella più strettamente legata, almeno fino ai noti fatti di Ungheria, ai comunisti italiani. Le vicissitudini storiche più recenti, che avrebbero dovuto portare alla celebrazione della vittoria ideologica dei socialisti rispetto alla visione ‘classista’ del Pci, ha invece visto Psi e Psdi spiacevolmente coinvolti in una generale situazione di corruzione politica. Non sta a me, in questa sede, giudicare tali fatti. Tuttavia, posso certamente ‘tirare delle somme’ di carattere politologico in grado di fornire un certo ordine alle profonde evoluzioni politiche di questi due Partiti. Alcune questioni, in particolare, appaiono fondamentali: i socialisti e i socialdemocratici italiani necessitano di una loro ‘ricollocazione’, sia ideologica, sia empirica, all’interno dello scenario politico nazionale, poiché appare ampiamente giustificata la necessità di una distinzione non sganciata da una visione intellettualmente più serena della situazione italiana, l’unica in grado di permettere un effettivo discernimento fra quanto accaduto a causa di una serie di errori degli apparati dirigenti rispetto alla questione di una necessaria rappresentanza politica delle due forze in questione. I problemi che oggi si pongono intorno a questo delicato problema sono, sostanzialmente, due: come riuscire a reinquadrare sinteticamente quanto successo e in quale luogo ‘geografico’ ricollocare esattamente tali tradizioni. A dire il vero, nelle proprie elaborazioni intellettuali, Psi e Psdi erano ormai considerabili definitivamente approdati sulla sponda ideologica liberalsocialista, benché tutta una serie di degenerazioni interne abbiano portato allo scoperto alcuni germi dissolutivi successivamente esplosi in ambedue i Partiti. Il ‘decisionismo strategico’ di Bettino Craxi, per esempio, da questo punto di vista ha finito col non tenere in giusta considerazione una serie di urgenze di rinnovamento necessarie a tutto il sistema dei Partiti nel suo complesso, senza dotare cioè simili intuizioni e progettualità di un peso politico e programmatico significativo. L’accusa non è soltanto quella di due Partiti che hanno commesso l’errore di acclimatarsi perfettamente al sistema di gestione della cosa pubblica della Democrazia cristiana, quanto di non aver preparato nuovi e più adeguati ‘terreni’ di autoevoluzione e di rimessa in discussione dell’intero sistema italiano di consenso nazionale, abbandonando ‘il pallino’ di tale iniziativa ad altri. Il Psi è rimasto per quasi un decennio ancorato a posizioni di gestione degli equilibri politici raggiunti anziché ricercarne dei nuovi, partecipando, ad esempio, più attivamente e più attentamente alla drammatica riflessione interna dei comunisti. Segnali di stanchezza verso i fragili equilibri basati sull’alleanza con la Dc potevano considerarsi ben percepibili sin dalla nascita del movimento della Lega Nord, verso la fine degli anni ‘80 del secolo scorso. Ma solo successivamente al ‘tracollo’ elettorale del 5 e 6 aprile 1992, socialisti e socialdemocratici presero atto della necessità di un allargamento in senso ‘esapartitico’ della maggioranza di Governo al neonato Partito democratico della sinistra, cioè allorquando era ormai prevedibile, se non immediatamente percepibile, lo ‘sfascio’ imminente. Socialisti e socialdemocratici, evidentemente, non avevano calcolato quanto fosse necessario porsi il problema di un serio dibattito intorno alla questione di una democrazia italiana ‘bloccata’ e priva di ‘alternanza’, sulla fase di crisi che questa attraversava e sull’effettiva distanza dell'Italia dai modelli democratici degli altri Paesi. Aprire l’elettorato moderato per farlo riflettere appieno, non per schiacciarlo, bensì per integrarlo in un sistema che sapesse predisporsi maggiormente a una propria mutazione dinamica e cumulativa in base a moderne visioni di matrice gradualmente riformiste rappresentavano temi che avrebbero dovuto appartenere proprio a quei Partiti che si richiamavano alle tradizioni socialiste ‘turatiane’, al limite per preparare il rientro nell’area culturale ‘laburista’ di una larga parte di quei comunisti che si erano scissi a Livorno nel 1921. Eccessivi problemi formali e di ‘immagine’, come si può ben comprendere, furono chiaramente alla base di simili errori di valutazione. In virtù di una pressoché totale assenza di autentici fermenti liberali, nella cosiddetta ‘gauche riformista’ è venuta a mancare, in determinati frangenti cruciali, un’elaborazione critica e programmatica specifica: i temi riguardanti un buon funzionamento della giustizia ‘ordinaria’ – quella cioè che riguarda e coinvolge soprattutto i ceti meno abbienti – una gestione sostenibile dei servizi pubblici, una migliore amministrazione fiscale e buone regole di costume civile sono stati, per troppo tempo, considerati problemi scontati o risolvibili per via fisiologica. Di più, fra i socialisti italiani è sempre rimasta saldamente radicata l’idea, assai ‘perniciosa’, secondo cui non sia necessario, in Italia, bonificare le istituzioni, tenere aperto un contenzioso con i gruppi moderati intorno a un buon andamento della ‘macchina pubblica’, destituire i cattivi servitori dello Stato e cominciare ad attingere alle competenze di funzionari politicamente neutrali ma ligi alla lettera alle leggi e allo ‘spirito’ della Costituzione italiana. Essi hanno ragionato come l’antico ‘patriziato’ della Repubblica di Venezia, il quale non sopprimeva mai le magistrature inutili, ma ne creava delle nuove, ritenendo sufficiente, per raggiungere l’obiettivo di una dignitosa efficienza amministrativa, incoronare qualche ‘esperto d’area’ da affiancare ai tecnici o ai vecchi manager democristiani. Oltre a ciò, storicamente il Psi è sempre stato un partito fortemente persuaso che il continuo rinvio delle necessarie riforme dell’architettura istituzionale del Paese non derivasse, se non solo in parte, dalle ragnatele ‘ipnotico–dilatorie’ del ceto industriale e imprenditoriale italiano, il quale, in verità, non ha mai perso occasione per far intendere che il solo ordinamento giuridico adatto a rendere veramente efficiente il nostro ‘sistema – Paese’ fosse un necessario ‘passaggio’ istituzionale verso un sistema ‘presidenzialista all’americana’, in grado di generare una deriva ‘dirigista’, tardo – taylorista, fortemente gerarchica dei rapporti di forza tra le diverse categorie produttive, in principal modo all’interno del mercato del lavoro. L’intuizione ‘saragattiana’ di un grande Partito laburista europeo in grado di contendere alle forze moderate l’adesione dei ceti medi accampandosi esattamente al centro dello schieramento politico del Paese ha perciò finito col risultare un traguardo notevolmente ritardato, che non si è mai realizzato. E ciò anche a causa dei socialisti e dei socialdemocratici, da sempre dediti a litigi interni e a sospetti, a sotterfugi e a rimescolamenti spericolati, a comportamenti frazionistici e a ‘intrallazzi’ di vario genere. Dunque, per arrivare a una conclusione di indirizzo intorno alla cosiddetta ‘questione delle diaspore’, cioè sul come e sul dove ricollocare ‘geograficamente’ quelle che oggi appaiono solo una serie di forze disperse, le ipotesi di studio che qui possiamo mettere in campo sono sostanzialmente due: la partecipazione a pieno titolo a un disegno socialdemocratico ‘federativo’ non soggetto all’influenza egemonica dell’ex – Pci, oppure la collocazione nell'area del centro moderato in coabitazione con laici e liberaldemocratici. Peraltro, sul fronte della sinistra di derivazione neo e post – comunista si continua a non voler comprendere come la mancata riflessione intorno al ‘nodo craxiano’ mantenga in vita alcuni difetti che appartengono, in modo esplicito, alla tradizione dalla quale essa stessa proviene. Ad esempio, riguardo al genere di propaganda che viene ancor’oggi proposta, composta di parole utilizzate come ‘gusci vuoti’ alle quali fornire un significato attraverso interpretazioni che si consolidano via via nel tempo. Il che, naturalmente, risulta una forma di ambiguità politica eretta a sistema, un congelamento tattico di ogni dualismo e di ogni contraddizione, dettato da ragioni pratiche di condotta, ma anche da una profonda motivazione inconscia: l’avversione, tutta moralistica e piccolo – borghese, nei riguardi di un mondo laico-riformista considerato da sempre utilizzabile al solo fine di accreditare la ‘storiella’ della funzione liberale della classe operaia e la ‘travolgente’ catena intellettuale De Sanctis, Labriola, Croce, Gramsci. Si tratta di una vecchia questione che pesa come un macigno, in termini strettamente intellettuali, poiché ‘salta a piè pari’ l’intero pensiero riformista di matrice ‘turatiana’. La mancata ammissione di questa e di altre ‘rimozioni’ ha sempre dimostrato la fragilità culturale dell’italo – marxismo, il quale, nel terrore di essere tacciato di assolutismo egemonico, è sempre rimasto inchiodato alle proprie posizioni, dimenticando che è proprio degli uomini di sinistra più autentici non provare scandalo rispetto ai propri cambiamenti di opinione, non disorientarsi innanzi a un riformismo in grado di distinguersi sia dalle forme di ‘statolatria’, sia dall’idea che non si debba riconoscere l’esigenza di tornare a essere semplicemente se stessi. La crisi del marxismo patita e vissuta all’interno della sinistra italiana, insomma, avrebbe dovuto essere affrontata, paradossalmente, in maniera marxista, cioè ‘alla radice’, attraverso una sincera autocritica nei confronti del comunismo ufficiale e del Pci.(Laici.it)

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