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Vanaprashta. La mia foresta,un centinaio di bambini, tre o quattro suore, ogni tanto dei volontari, dall’Italia

Ultima settimana di dicembre. Da qualche tempo in India per studio, mi si
prospetta una fine d'anno in solitudine o, al meglio, banale. Un'amica mi
chiama per gli auguri e intanto mi chiede se ho poi pensato a Vanaprashta.
Vanaprashta? Sì, me ne aveva parlato tempo prima: una missione, mi sembra di
ricordare, o qualcosa di simile, dove si accolgono quei bambini che il
politically correct occidentale chiama less fortunate, svantaggiati.

Ci sono, in India, centinaia di strutture di questo tipo, di ogni possibile
origine, matrice, finalità e specializzazione. Però, a pensarci bene,
Vanaprashta è una parola dell'antico sanscrito, la madre indiana di ogni
lingua europea, e letteralmente significa “andare nella foresta”, metafora
del distacco mistico per il confronto intimo. Come poi si possa conciliare
il distacco mistico con un luogo che ospita bambini, resta da capire, ma
quando ci penso sono già in volo per Bangalore, distretto di Karnataka,
India Meridionale. E Vanaprashta è lì a due indimenticabili, per sobbalzi e
spaventi, ore di taxi dall'aeroporto.
Una struttura più che dignitosa per gli standard dell'India rurale, un
centinaio di bambini, tre o quattro suore, ogni tanto dei volontari,
dall'Italia soprattutto, nei paraggi la nuova scuola appena terminata aperta
a tutti, in costruzione una nuova casa che moltiplicherà per cinque o per
sei i bambini che arrivano qui dalle provenienze più disparate e disperate:
portati da genitori che non riescono a mantenerli, sottratti forse alla
prostituzione precoce, certamente allo sfruttamento e alla miseria, la
versione senza speranza della povertà, abbandonati davanti al cancello da
madri che temevano un rifiuto. E uno straordinario prete cattolico indiano
(all'aspetto poco più di un ragazzo, ma bisogna assistere alla sua
celebrazione della Messa per capire che cosa è carisma e da dove viene) che
ha avviato tutto questo partendo da un bambino senza braccia che mendicava
davanti all'albergo di lusso che ospitava gli equipaggi Alitalia in sosta a
Delhi.ma non è questa la storia che voglio raccontare.
E' il tardo pomeriggio dell'ultimo giorno dell'anno e gli alberi della mia
foresta mi vengono incontro. Bambini, curiosi di vedere l'ultima arrivata:
chi più intraprendente, chi più ritroso, bambini insomma. Le prime
sensazioni sono uditive: per la prima volta sento il nome con il quale sarò
chiamata: Auntie, zietta. E per la prima volta sento il suono che mi
accompagnerà per tutti quei giorni e che ancora mi accompagna: Shanti Om,
che si può tradurre con benvenuta e anche: ti voglio bene, noi ci vogliamo
bene.Shanti Om è il saluto, Shanti Om è il canto-preghiera che apre e chiude
le giornate, i pasti, lo studio, i momenti di comunione: mani giunte,
visini sollevati e occhi chiusi. Li rivedo, li rivedo.
Si potrebbe, con qualche approssimazione occidentalizzante, definire
montessoriano o steineriano il modello educativo: gli indirizzi prevalgono
sulle regole puntuali; massimo spazio all'espressività, alla creatività,
alla relazionalità. Interconfessionalità assoluta (c'è una chiesetta, ma, a
parte questo, i simboli religiosi sono rari: il crocifisso bisogna averlo
nel cuore; su una parete serve a poco), la spiritualità come via maestra
verso la religiosità e da lì alla religione. Il castigo sanziona la mancanza
di rispetto e attenzione verso gli altri, verso la comunità, verso la
natura. Le punizioni – assolutamente escluse quelle corporali – sono,
diremmo, omeopatiche: due bambine colpevoli di avere deliberatamente rotto
un ramo d'albero sono “condannate” a portarselo sulle spalle per un certo
numero di volte intorno al campo giochi.
Ma quello che più di tutto mi segna è il modello culturale, il sistema di
valori insegnato e praticato nel quotidiano. La ricerca dell'efficacia, cioè
del servizio, prima che dell'efficienza: l'aiuto che prevale sulla
competizione, l'amore sul dominio. Qui è regola infrangibile che i più
grandi si occupino dei più piccoli. Lo studio, come via alla crescita
individuale e la crescita individuale come strategia dello sviluppo
collettivo. La consapevolezza del sé, di un'identità, di una dignità che
deriva dall'orgoglio di essere, dall'avere uno spazio, un ruolo, un compito:
non un solo chicco del riso che è la base dell'alimentazione viene sciupato
e quando si è in tanti si dorme in due per letto, ma chi va a scuola ci va
con la divisa di Vanaprashta in perfetto ordine: povertà, non miseria. E poi
– e soprattutto – la tenerezza, come base della relazione di convivenza:
suona immensa, scandalosa questa parola qui, tra bambini molti dei quali
tutto, anche l'indicibile, hanno avuto e conosciuto, tranne che tenerezza.
Eppure sono loro a offrirla per primi: quanto c'è di non detto perché
ineffabile in quel continuo chiamarti (Auntie, Auntie,.), in quell' esigere
di essere presi in braccio, ascoltati, sentiti pelle su pelle, tepore su
tepore. Li risento, li risento.
E' tempo di partire. Vanaprashta, la mia foresta, è alle spalle, il taxi
più o meno quello dell'andata (totale sprezzo del pericolo) e così il volo.
Io no. E il mio pensiero va irresistibilmente a quel versetto di Isaia:
“.ecco: io faccio per voi una cosa nuova. Proprio ora germoglia. Non ve ne
accorgete?

Camilla Bellocchio
Corrispondente dall'India di Lombardi nel Mondo
www.lombardinelmondo.org

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