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Il carcere e le misure alternative. E la tutela delle vittime offese dai reati?

Le finalità delle pene inflitte e i mezzi usati per attuarle hanno un intento riabilitativo, rivolto al recupero sociale o spirituale, il carcere come mezzo di punizione ma anche di autocorrezione. Possiamo ricondurre le finalità della pena a tre componenti essenziali:
-l’idea-base retributiva, per cui al comportamento antisociale segue la reazione sociale negativa;
-la prevenzione generale, che consiste nell’azione diretta a distogliere la generalità dei membri di una società dal commettere reati;
-la prevenzione speciale, che consiste nell’azione diretta sul singolo delinquente perché non ricada nel delitto.

La funzione retributiva della pena indica che il delitto deve essere pagato con una giusta sofferenza, che ristabilisca l’equilibrio sociale rotto da chi ha commesso il reato. Alla base vi è un fondamentale principio di giustizia: la premiazione per il bene e la punizione per il male compiuto.
La funzione deterrente della pena, che svolge un effetto preventivo a livello generale, consiste nel dissuadere gli individui dal compiere delitti mediante la minaccia di una sanzione.
La funzione di difesa sociale, si pone l’obiettivo di tutelare la società mediante la temporanea “neutralizzazione” – attraverso varie misure detentive – dei criminali più pericolosi, al fine di prevenire la reiterazione del reato.

Fra le funzioni della pena, la più recente è quella risocializzativa, che tende al recupero sociale del criminale. Tutto il mondo occidentale ha aderito ad un’ideologia del trattamento e della rieducazione, che ha influenzato le scelte di politica penale, al punto da rendere la funzione risocializzativa prevalente rispetto alle altre finalità della pena, con conseguenze spesso preoccupanti per l’incolumità delle vittime.
Nei paesi dell’Europa Occidentale, la funzione risocializzativa prevale rispetto alle altre finalità della pena.

La moderna ideologia rieducativa si è nel tempo concretizzata in due sostanziali forme:
-le pratiche di trattamento all’interno dei penitenziari, comprese le psicoterapie volte a modificare la personalità del soggetto criminale e le varie tecniche utilizzate per l’apprendimento di abilità prosociali;

-le pratiche di trattamento extramurario, ossia le misure di decarcerizzazione unite all’assistenza e alla supervisione in libertà (sopra delineate). questo ha portato il sistema di giustizia penale a perseguire un orientamento basato sempre più sulla decarcerizzazione e sulla depenalizzazione dei reati, perseguendo l’obiettivo di ridurre l’area d’intervento del sistema penale e della sanzione carceraria.

La decarcerizzazione, alla base vi è la convinzione di dover differenziare il ricorso a strumenti diversi dalla detenzione. Secondo i sostenitori della decarcerizzazione, occorre superare il concetto che il carcere sia l’unica pena possibile, visti gli effetti negativi che esso provocherebbe. Taluni hanno considerato la carcerazione non come una conseguenza della commissione di reati più gravi, ma come la causa stessa della condotta criminale recidiva.

Nuove forme di pena e un ventaglio di opportunità mirate, nelle intenzioni del legislatore, ai fini della decarcerizzazione e risocializzazione: esse sono rappresentate da una serie di benefici con i quali l’attuazione del trattamento dovrebbero trovare ampio spazio anche al di fuori delle mura carcerarie
Nel nostro ordinamento giudiziario, l’attuazione di tali principi si è concretizzata anche attraverso il ricorso sempre più massiccio a forme alternative alla carcerazione, quali l’affidamento in prova ai servizi sociali, la detenzione domiciliare, il regime di semilibertà e la liberazione anticipata, il Lavoro all’esterno. ai quali vanno aggiunti i permessi premio.

La depenalizzazione consiste invece nel modificare o annullare la sanzione penale per alcuni comportamenti ritenuti non più meritevoli di repressione.

La risocializzazione è dunque un diritto del delinquente, rispetto al quale lo stato sente il dovere di intervenire. È sotto gli occhi di tutti quanto latitante sia rimasto, invece, il dovere di tutelare le vittime offese dai reati.

In anni più recenti, il mito risocializzativo è entrato in crisi, ad iniziare dagli Stati Uniti. Tra le cause di questa crisi, si possono annoverare: l’eccessiva fiducia nelle possibilità delle scienze umane di modificare le personalità antisociali e di formulare attendibili previsioni del comportamento futuro; l’estrema discrezionalità degli organi amministrativi in funzione della razza e del ceto sociale; la scarsa tutela della società; il costo elevato per il finanziamento degli operatori preposti al trattamento; ed infine – ultimo, ma non ultimo – la pressoché totale mancanza di risultati positivi nei trattamenti attuati.

Com’è noto, negli USA i riflessi della crisi dell’ideologia risocializzativa si sono evidenziati nella cosiddetta zero tolerance (tolleranza zero), ossia in un inasprimento generalizzato delle pene.
L’enfatizzare il processo risocializzativo e pensare che sia una meta conseguibile da tutti è illusorio, perché non vi può essere risocializzazione senza volontà da parte del delinquente di risocializzarsi.
Il fine rieducativo della pena certamente esiste, ma la risocializzazione si realizza attraverso meccanismi psicologici che non sono concretamente influenzabili dagli interventi degli operatori penitenziari né mediante la decarcerizzazione: il fine riadattivo è un contenuto – o meglio un traguardo – che esiste di per sé nella pena, così come esiste la sua afflittività e la sua deterrenza; ma si tratta di una potenzialità insita nella pena, che talora si realizza spontaneamente, ma senza alcuna prevedibilità e indipendentemente da qualsiasi trattamento o dal più spinto riduttivismo carcerari.

A dispetto degli sforzi compiuti dai vari operatori, i tentativi di rieducare, sono falliti miseramente. Ad un detenuto che vengono concessi benefici come premio, interessa appunto ottenere premi e non alla sostanza delle attività rieducativa. Il criterio di premialità ha snaturato quindi il ruolo degli operatori del trattamento, nel senso di una ambigua distorsione correzionalistica dell'aiuto. Il fatto che i premi e i benefici concessi dipendano dal giudizio dell'educatore, che può essere favorevole o sfavorevole a tale concessione, lo priva di ogni possibilità di instaurare un rapporto di piena fiducia con il detenuto.

Vi è attualmente uno stridente contrasto fra una concezione della pena cui è attribuita una prioritaria, e quasi esclusiva, finalità rieducativa e fra una prassi giudiziaria indulgenzialistica e la realtà: oggi dominata dalla sempre maggiore invadenza della criminalità. Pertanto non si ravvisa più l’opportunità di conservare un superato mito risocializzativo, già in tanti paesi abbandonato e in nessun luogo esasperato come da noi; occorre rivalutare le richieste di sicurezza dei cittadini, meglio garantire la difesa sociale ed appagare le, finora del tutto ignorate, richieste di giustizia celere e certa.

Gennaro Ruggiero www.gennaroruggiero.com

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