L’autore napoletano Roberto Saviano sembra esser diventato oggetto di un culto frenetico: osannato da un’intellettualità che vi vede una forma evoluta di impegno, inneggiato dalle tradizioni più legaliste della Destra, (saltuariamente) sbeffeggiato dalla Sinistra libertaria, brandito e blandito dai “giustizialisti” dentro e fuori il Partito Democratico. In realtà, a ben vedere i fatti, queste dichiarazioni altisonanti, queste premiazioni trionfali, hanno poco a che spartire con la realtà. “Gomorra” è stato un libro interessante, ma contraddittorio. Illustrava bene alcuni meccanismi di spaccio, ma per esempio non diceva alcunché sulle modalità di produzione degli stupefacenti: il che è una lacuna, perché se si vuole far seria informazione (e magari persino prevenzione!) sul consumo, non si può prescindere dall’illustrare per sommi capi come il guadagno dei clan non nasca nelle piazze e nei cortili, ma nelle “raffinerie” e nel taglio. Nei composti più (o prima ancora) che negli smerci. Dal punto di vista della cronaca giudiziaria, era un libro poco tecnico ma completo: vi venivano spiegati gli elementi in fatto di molti, significativi, procedimenti penali contro la malavita organizzata del Campano. Qualche parola in più poteva starci sul profilo dei condannati: molto spesso boss riconosciuti e temuti si vedevano arrivare i primi riconoscimenti, processuali, di colpa dopo anni e anni di dominio, divenendo nel frattempo imprenditori d’alto bordo, persino pubblici dipendenti o eletti per svolgere funzioni pubbliche. Nulla c’è su quello che con disinvoltura si chiama “terzo livello” e che invece è uno dei centri propulsori del malaffare: quello delle connivenze politiche, delle elezioni pilotate e, soprattutto, degli individui concretamente vittoriosi in consultazioni elettorali non solo per voto di scambio, ma (anche più spesso) per diretto incardinamento nelle strutture verticistiche delle cosche. Ancora: e che dire di quella vasta burocrazia e amministrazione, d’impresa come di pubblico servizio, che ha sperperato denaro comune per fini propri, anche a prescindere da vincoli diretti con le famiglie criminose, ma in definitiva ordendo traffici, favorendo illeciti e, addirittura, ordinando eliminazioni o compiacendosi d’esse?
Da “Gomorra” in poi, la produzione editoriale di Saviano è più che mai confusa: perché trasformata in una specie di opinio pro veritate su ogni argomento d’attualità. Qui chiaramente non c’è dolo del bravo cronista, ma anche il giornalista più ansioso di dar voce alle proprie lotte dovrebbe o potrebbe capire che non tutto merita un commento, un’apparizione, una nota oppure l’esplicitazione del proprio parere.
Che nel Napoletano il gradimento verso lo scrittore non sia ai massimi livelli è comprensibile. Innanzitutto, la più parte delle gravissime minacce subite (su questo la solidarietà a Roberto Saviano è indiscutibile!) non giunge dalla malavita partenopea, bensì da quella casertana. E allora perché continuare ad identificarsi o a farsi identificare con quella città dove forse più modesto è stato il ruolo positivo della denuncia, dell’inchiesta, dell’indagine?
Né ha potuto giovare la produzione dell’omonimo film “Gomorra”… I fatti più gravi e drammatici, le sofferenze di quartiere più lancinanti, sono parsi spettacolarizzazione, denuncia pop, edulcorata, più blanda, più salottiera che cronachistica, più narrativa che veridica. Lo scrittore militante contro il sopruso camorristico è sembrato immerso in quello stesso scenario di gala che racconta, parlando di Angelina Jolie a una premiazione cinematografica, dove indossa un vestito identico a quelli predisposti dalle sartorie vicine alla camorra.
Il profilo pubblico di Saviano rischia di uscire malconcio per la sovraesposizione: che si voglia ragionare su questo può solo essere un bene. Saviano firmò il manifesto per Cesare Battisti su “Carmilla”, in tempi in cui il caso Battisti (ex terrorista in Brasile) destava poco interesse. Quando quel caso, nella polemica estradizionale tra Brasile ed Italia, tornò in auge, Saviano ritirò il proprio consenso, aggiungendo che lo faceva anche per rispetto alle vittime dei crimini contestati a Battisti. Ma può cambiare nello spazio di pochi anni il sentire delle vittime? O lo si sceglie come strumento cardinale della propria decisione o non lo si può riadombrare in seguito. E se Battisti avesse firmato l’appello per Saviano, la meritoria richiesta di garantirgli una scorta e una maggiore tranquillità di vita, e dopo lo avesse ritirato infilando qualche considerazione generale sui meriti e sui limiti del giornalismo di Saviano, a parti invertite, che cosa avremmo detto? Chi si sarebbe stracciato le vesti?
Non coglie nel segno chi rinfaccia al calciatore Borriello o al musicista Sepe superficialità nel contestare Saviano. Il primo viene da una famiglia umile della zona partenopea, conosce certe dinamiche sulla propria pelle, non per studio giornalistico: perciò sa, sia pure con un linguaggio rozzo e con dichiarazioni e smentite a dir poco pasticciate, che non è mettendo una città o uno stile di vita alla berlina che si risolvono i problemi. Un rischio interpretativo che invece può esser corso prendendo Saviano troppo alla lettera. Sepe, al contrario, da artista che non rinnega la strada, pensa che non siano le custodie cautelari e i maxiprocessi a ripristinare la legalità: e come dargli torto? È più “anticamorra” descrivere una fitta rete di traffici loschi o far respirare nei quartieri più creatività, più libertà, più alternative?
Inutile contendere il lavoro di uno scrittore tra Destra e Sinistra. Aver letto Evola non è affatto un peccato: anzi, in Evola ci sono degli spunti che meriterebbero qualche riconsiderazione. Contano i tempi e non solo i gesti: Saviano rende pubblico il proprio debito evoliano quando si dice, con un minimo di strumentalità, che il Nobel dato a Quasimodo nel 1959 sarebbe dovuto in realtà essere appannaggio del contestato autore romano. Non il modo migliore per lavorare a una “pacificazione di ispirazioni letterarie”, il cui opposto ha spesso scagliato nel dimenticatoio romanzieri eretici, libertari, non convenzionali o di partito, di ogni estrazione politica.
Infine, poco sembra avere a che fare con l’impegno anticamorra l’invito alla disobbedienza civile sulla legge anti-intercettazioni: per il sol fatto che essa ancora non esiste. E allora o si accetta la responsabilità di suggerirne circostanziate modifiche, magari dimostrando proprio col metodo giornalistico (che qui sarebbe fondamentale) la fondatezza dello strumento del controllo telefonico nel contrasto al malaffare, oppure si rischierà di unire chiacchiericcio alla confusione, strali su strali al clima da rissa permanente. Senza avanzare troppi scrupoli su quel diritto alla riservatezza che, soprattutto per chi come Saviano vive drammaticamente sottoscorta, è fondamentale, inevitabile e vitale.
Domenico Bilotti