Quei ‘No’ che ci identificano

di Vittorio Lussana

Il fallimento della linea politica, totalmente autolesionista, del Partito democratico deve offrire al gruppo dirigente del Psi, che nelle prossime settimane si riunisce a Perugia per celebrare il proprio II Congresso nazionale, l’occasione per occupare nuovi spazi che non siano a mezzadria ideologica o a insediamento fisso, ossia recintati da una fedeltà assoluta all’egemonia culturale cattocomunista. Compito principale dei socialisti italiani è infatti quello di riuscire a esporre una nuova strategia in grado di svincolare il Partito dalle sue ‘psicotiche logomachìe’ sulla propria ragion d’essere, logiche che lo hanno sempre ‘ammanettato’ in uno sterile giuoco di ‘conventicole’ interessate esclusivamente alla conquista delle leve di comando ‘interno’ al Partito, per restituirlo, invece, alla lotta politica armato di idee assai utili per il Paese. I socialisti rappresentano una cultura e un’identità politica assolutamente necessarie alla ricostruzione dell’intera sinistra italiana. E, a tal proposito, tutto il mondo socialista o che a tale cultura politica dice di far riferimento dovrebbe tornare a riflettere sulla propria e più profonda essenza politica: quella di dover svolgere una funzione di ‘presidio di frontiera’ lungo tutto il fianco del ‘culturame’ di matrice utopico-massimalista, nella consapevolezza che proprio la sua identità riformista possa trasformarlo in un interlocutore avveduto e curioso, ma non per questo dimissionario o cedevole, per tutta la sinistra italiana. Si tratta di un valore ‘cultural – identitario’ affermabile per via di negazione – ciò che non siamo, ciò che non vogliamo – che tuttavia è sempre stato il vero punto di forza dei socialisti e che potrebbe riportare il Psi a svolgere quel ruolo di ‘cerniera’ del sistema dei Partiti che gli ha sempre assicurato un plusvalore politico dalle proporzioni tutt’altro che modeste. Oggi, il Partito socialista italiano può e deve tramutarsi in un fervoroso laboratorio di idee per tutta la sinistra italiana, distinguendosi sia dal dirigismo tardo-fordista e clericale del centro-destra, sia da una visione fortemente ‘borghese’ di un laicismo chiuso in se stesso, che si pone esclusivamente come elemento di ‘rottura’ all’interno del dibattito politico complessivo. Come ho più volte avuto modo di sottolineare in questi ultimi anni, molte scelte politiche recenti sono state operate in una direzione fortemente contraria rispetto a quella di una moderna cultura liberaldemocratica. Tuttavia, ritengo anche si debba valutare quanto abbiano fin qui pesato modelli ideali di società ognuno dei quali pervasi da un’immagine di unità organica, preservabile solo all’interno di vetuste coordinate ideologiche. All’interno di simili logiche, si spiega assai bene persino l’obiezione di un laicismo radicale che si è orientato, principalmente, in una direzione ‘a senso unico’, finendo col ricompattare un mondo cattolico che, da sempre, tende a proporre un modello di società ‘omnicomprensiva’, tale cioè da assorbire in sé una larga parte della sfera sociale della comunità dei cittadini, configurandosi secondo modalità ‘monolitiche’, in cui la stessa religione diviene una vera e propria ideologia. Questa linea di tendenza si è manifestata con chiarezza in quei contesti politici (legge sulla fecondazione assistita, pacs, testamento biologico, eutanasia, ‘pillola del giorno dopo’) in cui il conflitto dialettico ha assunto gli aspetti della vecchia contrapposizione tra laicità e religione, tra fede e scienza, tra Stato e Chiesa: in buona sostanza, tra due modelli etico-politici nettamente distinti. Tuttavia, io credo che tutto ciò abbia segnato, in quasi tutti gli ambienti politici e culturali del Paese, l’emarginazione delle tendenze più aperte e liberali, mentre sul fronte laico-riformista si sia finiti col marginalizzare una concezione della laicità maggiormente aperta ai valori dell’etica spirituale o religiosa. La fisionomia fondamentalista di questo laicismo ‘positivista’ discende dalla convinzione, un po’ datata, che ragionando in termini puramente scientifici esista una sola e unica verità, una sorta di applicazione ‘comtiana’ dei criteri e delle metodologie della scienza alle multiformi realtà culturali del Paese, che pretende di imporre, anche in ambiti morali, una sola spiegazione valida: quella cosiddetta ‘scientifica’. Viceversa, si sviluppa, anche in Italia, una sempre maggior consapevolezza del relativismo proprio di quelle metodologie ‘scientiste’ che, a loro volta, infliggono a un simile ‘dogmatismo’ un colpo mortale. Ma proprio il socialismo è nato, con tutti i suoi rivoli e le sue varianti, da quella di derivazione ‘gramsciana’ a quella autonomista di Bettino Craxi, incuneandosi nel progressivo processo di distacco tra laicità e laicismo, ovvero in quanto dottrina politica che ha influito sull’evoluzione stessa della laicità italiana secondo molteplici modi e in svariate direzioni: mentre da un punto di vista ideologico si è sempre posto come una moderna filosofia gradualista e riformista, a livello politico ha sempre storicamente puntato al superamento della polemica tra laicismo e clericalismo, perseguendo una progressiva trasformazione di quegli assetti sociali al cui interno si esaurisce quel conflitto. In poche parole, prendendo le distanze dal liberalismo oligarchico, il socialismo ha sempre ostacolato la formazione di ogni ideologia ‘statalista’ proponendosi come dottrina portatrice di valori alternativi a quelli ‘borghesi’, nonché a quelli burocratici tipici del socialismo scientifico di derivazione ‘marxiana’. Al contempo, portando la propria sfida al cuore stesso del ‘classismo borghese’, esso è stato in grado di accelerare anche la crisi del laicismo in quanto ideologia militante, provocando, quasi per contraccolpo, un riavvicinamento storico tra Stato e Chiesa. Insomma, un soggetto politico effettivamente socialdemocratico diverrebbe estremamente funzionale a separare l’assetto laico dello Stato dalle ideologie laiciste in base a tre principali motivazioni: a) perché potrebbe spostare i termini del confronto dal piano puramente ideologico a quello più propriamente economico-sociale; b) perché introdurrebbe un robusto elemento dialettico nella vita pubblica; c) perché metterebbe a nudo le debolezze del laicismo in quanto ideologia ‘borghese’ e, al fondo, conservatrice. Culturalmente, il problema di un nuovo riformismo che si indirizzi verso nuovi ideali di laicità e di nuove libertà pubbliche deve perciò essere sollevato in una maniera completamente diversa. Personalmente, tendo a porre la questione sul piano di una effettiva ‘riforma intellettuale e morale’ della cultura popolare italiana intesa come una fortissima innovazione della nostra mentalità collettiva nazionale. Il tema di una simile ‘riforma religiosa’ della nostra società non passa, infatti, per la ‘scorciatoia’ di una critica di stampo ‘fondamentalista’ alla cultura cattolica, bensì da una lettura del cattolicesimo medesimo in quanto storia di un’ideologia sociale. La definizione della religione come apparato ideologico e in quanto visione egemonica del mondo, già presente nella critica italo-marxista, non ha mai esaurito del tutto la questione di un sentimento religioso e popolare in grado di ripresentarsi, in mutate condizioni, in situazioni totalmente nuove o assolutamente impreviste. I processi di secolarizzazione e di modernizzazione operano lentamente, ma costantemente, come fattori dirompenti nel rapporto tra struttura sociale e religione, lasciando sussistere quest’ultima in quanto ‘visione frammentata’ della realtà. Lo sviluppo capitalistico e i conseguenti processi di modernizzazione dei valori etici di comportamento producono, perciò, la ‘caduta’ della religione in quanto ideologia, ovvero la sua riduzione a filosofia ‘subalterna’, adatta agli strati sociali più emarginati. E, soprattutto, causano la sua ‘frantumazione’ in quanto ideologia organica: quali sono, oggi, le effettive interazioni che avvengono in concreto tra il sentimento cattolico-popolare e le prescrizioni e i modelli di comportamento teorizzati dalla Chiesa istituzionale? Quanti sono i credenti che fanno uso, oggi, di metodi anticoncezionali? Quanto effettivamente influiscono determinati precetti ecclesiastici, teorizzati secondo modelli culturali integristi, sul comportamento quotidiano dei cittadini? E fino a che punto? Queste sono le contraddizioni fondamentali in grado di generare nuove domande di carattere etico, culturale e politico. E io continuo a ritenere che, intorno a un simile dibattito, possa, in futuro, ritrovarsi una larga parte del mondo socialista, socialdemocratico e liberale italiano, affinché nella questione della ‘pluralità di cattolicesimi’ che convivono all’interno della struttura popolare italiana possano svilupparsi prospettive in grado di riprendere il ‘filo rosso’ di un innovativo riformismo sociale in grado di recuperare una nuova autorevolezza politica.(Laici.it)

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