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Vuvuzelas contro il razzismo strisciante di casa nostra

Il mondiale di calcio continua il suo lento fluire, trascinando nelle sue acque limacciose, oltre alle passioni di miliardi di tifosi delle diverse squadre nazionali, detriti di ambizioni miseramente frantumate (vedi la Francia e ahimè! anche l’Italia) o di velleità ingenuamente covate (Sud Africa). Sul piano strettamente calcistico, è ancora presto per fare bilanci, anche se il bel gioco è comparso finora solo a sprazzi, come il sole di questa bizzarra primavera romana.
Il mondiale, invece, si è già rivelato come un grande laboratorio di passioni, in cui il calcio spesso c’entra come i cavoli a merenda e diventa il pretesto per altre cose. Vi confesso che a me il calcio piace proprio per questo, per la sua capacità di portare allo scoperto i sentimenti veri delle persone, siano essi ordinari o particolari, affettuosi o rabbiosi. Insomma, con il pallone, è difficile barare: o bianco o nero, o dentro o fuori.
Così, in queste settimane si stanno succedendo espressioni e prese di posizione che mandano in frantumi convenzioni e diplomaticherie come fa il classico elefante con l’altrettanto nota cristalliera.
In Germania, ad esempio, un gruppo di cabarettisti con il gusto della provocazione ha confezionato e messo in circolazione un video in cui il leit motif è fatto più o meno di queste parole: “Wer den Cup gewinnt ist scheiß egal nur Italien nicht!“ (“Chi vince la coppa del mondo non ci interessa una merda, basta solo che non sia l’Italia”. Storiche antipatie, rigurgiti di xenofobia? Mah, sarei portato a sdrammatizzare e ad addebitare la calcistica invettiva alle ferite ancora aperte dell’ormai mitico 4 a 3 del ’70 o alla rasoiata di Grosso a qualche minuto dalla fine nella semifinale del 2006, proprio contro la Germania.
Non facciamo le vittime, dunque, e ricordiamoci di quante ne abbiamo dette e fatte quando accadevano quegli eventi difficili da dimenticare. D’altro canto, alzi la mano chi non ha gioito o fatto l’ombrello nel momento in cui il Sud Africa buttava fuori la Francia, ospite abusiva di questi mondiali per via della manina galeotta di Henry. Se è vero che la vendetta va servita fredda, la faccia di Domenech alla fine della partita per il nostro sulfureo Giuanin Trapattoni deve essere stata deliziosamente refrigerante, appena uscita dal frigo.
Anche in questo caso vecchie storie, vecchie ruggini. Chi ha qualche anno sulle spalle ricorda i tempi in cui Bartali e Coppi davano la polvere a tutti sulle Alpi e sui Pirenei e i francesi schiattavano dalla rabbia. E chi ha meno anni, si può ripassare quelle mitiche storie con le parole di un poeta vero come Paolo Conte: “… io sto qui e aspetto Bartali / tra i francesi che s’incazzano / e i giornali che svolazzano”. Che soddisfazione! Noi, i parenti poveri dell’Europa, che ogni tanto ci levavamo lo sfizio di dare un paio di sberle ai parenti sussiegosi. E chi non lo ricorda il Nino Manfredi di “Pane e cioccolata”, travestito e mesciato da tedesco tra i tedeschi, che al gol dell’Italia sulla Germania sbotta in un urlo liberatorio e agli attoniti avventori del locale fa pure lui il gesto dell’ombrello.
Insomma, vicende di rivalità pallonare e ciclistiche che non sono il massimo dello stile, ma che ci possono stare, ci possono aiutare a scaricare le tensioni e le frustrazioni di una giornata da gente qualsiasi. Modelli di comportamento che non consiglierei ad un amico di mettere a base dell’educazione dei figli, ma che quando arrivano conviene vivere con ironia e divertimento. Facendo però attenzione che un po’ alla volta, magari senza rendersene conto, la competizione non diventi rivalità, la rivalità antagonismo e l’antagonismo non assuma le vesti inquietanti della esclusione e della separazione degli altri, di quelli che sono considerati distanti da noi, diversi da noi.
Mi direte: “Ma mo’ che ci azzeccano queste menate con il mondiale?” Ci azzeccano, ci azzeccano. Ogni cosa, anche la più piccola, ha socialmente un senso, tende a trasformarsi in altro, in qualcosa di più complicato e, talvolta, di più pericoloso. Ne volete una prova? A forza di predicare che quelli che arrivano da migranti, come noi siamo arrivati tempo fa in tanti paesi del mondo, sono diversi da noi e tendenzialmente pericolosi, si è introdotto tra noi una forma di assuefazione alla xenofobia che s’infiltra nei poli della pelle e che quindi sta facendo pacificamente il suo corso. Ad esempio, molte compagnie di assicurazione, per una polizza auto, se si tratta di cittadini italiani o statunitensi o inglesi o di paesi “per bene” fanno un prezzo, se si tratta di cittadini romeni, marocchini o albanesi ne fanno un altro, maggiorato di alcune centinaia di euro. Ma va? Invece è proprio così. Alla faccia della democrazia e della Costituzione, che predica che tutti gli uomini sono (o dovrebbero?) essere uguali senza distinzione di religione, di pelle e di razza.
Insomma, quando facciamo il tifo, sfoghiamoci pure, ma appena spento il televisore occhio a chi ci allena nella società e alla formazione nella quale giochiamo la partita di ogni giorno. E quando accadono cose come queste che abbassano i nostri livelli di civiltà, tutti a suonare vuvuzelas, sperando che ci sveglino dal torpore civile in cui rischiamo di sprofondare.

Gino Bucchino

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