Pomigliano, irritazione della Fiat: "Lavoreremo con chi ha firmato l’accordo". Marchionne deluso

di Ignazio Dessì

Con una affluenza del 95 per cento il referendum sul futuro di Pomigliano ha decretato – come non era dubitabile – la vittoria dei sì (con il 63% dei voti), ma senza quel responso plebiscitario che qualcuno si aspettava. La domanda diventa quindi: cosa farà ora la Fiat? Marchionne (che sembrerebbe deluso dal risultato ed ha convocato i vertici aziendali), infatti, lasciava intendere che, senza una garanzia di completa subalternità alle condizioni aziendali, sarebbe potuto saltare tutto (magari andando a produrre la nuova Panda in Polonia) o scattare comunque “l’opzione C”. Cioè la chiusura dell’attuale stabilimento e la costituzione di una newco con il fine di riassumere solo gli operai disposti ad accettare – senza condizioni – il nuovo contratto, siglato da Fiat e sindacati, ad eccezione della Fiom-Cgil. In queste condizioni, sarà disposto il Lingotto ad applicare comunque il contratto effettuando il previsto investimento di 700 milioni? Per ora l'azienda si è limitata ad un laconico comunicato: “Lavoreremo insieme con chi ha firmato l'accordo per realizzare condizioni di governabilità”. Poche righe molto apprezzate dal presidente di Confindustria Emma Marcegaglia: “Apprezziamo la posizione della Fiat e ribadiamo che c'é un sindacato che non comprende le sfide che abbiamo davanti”.Si capisce comunque, vista la situazione, l’esternazione del segretario del Pd Pier Luigi Bersani lesto a chiedere alla Fiat “di applicare l’intesa”, dopo il prevalere dei sì. Il leader pidiessino ha dichiarato però un'altra cosa importante: che “di Pomigliano non si deve fare sbrigativamente un modello”. Come dire che l’azienda del napoletano deve rimanere un caso a sé, giustificato dalla necessità di salvare 5mila posti di lavoro (più l'indotto) e di fare gli investimenti previsti, ma senza che diventi un precedente in grado di minare le relazioni industriali e le conquiste sindacali in Italia. Si dovrà discutere ancora a lungo, quindi, del significato del referendum e della vicenda Pomigliano, perché non è detto, come pensa il ministro Sacconi (“Marchionne saprà rispettare i patti”), che “adesso il Paese è più moderno” e “vi sono tutte le condizioni per realizzare il promesso investimento in un contesto di pace sociale”.Qualche seria diffidenza, del resto, comincia ad aleggiare nell’aria e la Fiom, rivendicata la sintonia con Cgil, esprime dubbi sulla volontà dell'azienda di realizzare comunque gli investimenti. Ma anche Fim e Uilm, che hanno firmato l’accordo, nel dirsi soddisfatte del risultato, si affrettano a chiedere la ratifica e il mantenimento degli impegni. Tocca insomma a Marchionne e al quartier generale dell’azienda di Torino muovere, adesso, i pezzi sulla scacchiera. E da quelle mosse potrebbe dipendere il futuro delle relazioni tra Fiat e sindacato, non solo a Pomigliano. La stessa Fiom ha precisato, per bocca del segretario dell’organizzazione napoletana Massimo Brancato, che “se la Fiat aprirà una trattativa e si predisporrà ad una mediazione che rispetti la costituzione, le leggi dello stato e il contratto, ci sederemo a un tavolo disponibili a un negoziato”. Una posizione non certo estranea ai vertici della Cgil, come esplicita bene il vice segretario nazionale Susanna Camusso, destinata secondo l’opinione prevalente, a sostituire presto Guglielmo Epifani alla guida del sindacato: “Dopo la prevedibile affermazione dei sì, chiediamo a Fiat di realizzare l’investimento e la produzione della nuova Panda a Pomigliano, nonché di riaprire la trattativa per farla condividere a tutti”.Insomma a Pomigliano d’Arco può darsi, per dirla con il segretario della Cisl Raffaele Bonanni, che abbia “vinto il lavoro e il buon senso”, e che “i lavoratori abbiano “compreso e condiviso le ragioni dell’accordo”, come sottolinea Luigi Angeletti. Oppure che si sia dimostrato che “la maggioranza della fabbrica vuole lavorare e produrre”, per ripetere le parole di Giovanni Centrella, segretario generale della Ugl. Una cosa però sembra intuibile: il discorso non è finito.Appare del tutto evidente che la gragnola di assensi alle richieste Fiat scaturisce dalla necessità di garantirsi il lavoro (come ribadisce il vicesegretario del Pd Enrico Letta), mentre i no si riferiscono alla determinazione nel difendere diritti individuali, di valore costituzionale, che non possono assolutamente essere sacrificati. Un po’ quanto sostiene la stessa Camusso che aggiunge come “in quel territorio, caratterizzato da un'alta disoccupazione, uno stabilimento come quello della Fiat svolge un ruolo essenziale e non sostituibile”.C’è un ricatto perlomeno indiretto alla base del difficile e sofferto voto di Pomigliano, perché, come in tanti hanno sottolineato, chi ha bisogno di lavorare e viene messo davanti all’alternativa “prendere o lasciare”, non può essere completamente libero di scegliere. Per questo – sostiene anche Enrico Letta – “c’è la necessità che l'accordo passi e si salvaguardino gli investimenti Fiat tenendo però conto della situazione eccezionale”. Tentare di “creare un precedente e dare all'accordo carattere generale rischia di compromettere l'accordo stesso”. Un presupposto, questo, risultato caro alla Chiesa e che il governo, prima di tutti, dovrebbe farsi carico di sondare bene.In questo contesto ha facile gioco la segretaria generale in pectore della Cgil nell’affermare, riferendosi all’atteggiamento dell'esecutivo nella vicenda, che “è stato ininfluente sulle scelte industriali, giocando una partita di divisione del sindacato, mentre un ‘Paese moderno’ difende sempre i diritti dei lavoratori”. E proprio qui sta il punto: i diritti. Il caso di Pomigliano non si chiude con la vittoria dei sì necessitati dall’esigenza di garantire il lavoro per sé ed i propri figli, sottostando a un diktat che, insieme alla indispensabile nuova organizzazione del lavoro e all’opposizione all’assenteismo, impone di rinunciare a garanzie inviolabili come il diritto di sciopero. Presuppone un ripensamento della difesa dei diritti dei lavoratori e dell’unità sindacale. Impone di valutare il significato delle parole di quegli operai che uscendo dal seggio hanno detto “ho votato per conservare il mio posto di lavoro ma la lotta per i diritti continua”.

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