L’Italia nello specchio della televisione

di Tommaso De Lorenzis

La scommessa tentata da Carlo D’Amicis ne La battuta perfetta (Minimum Fax, pag. 363, € 15) è coraggiosa ai limiti della spregiudicatezza. Lo scrittore, infatti, ha scelto di misurarsi con uno dei più titolati paradigmi letterari, la saga di famiglia, per raccontare uno dei più controversi mutamenti del secolo scorso: la trasformazione antropologica che la Tv ha impresso alla società italiana nell’arco di sei decenni.

Peraltro, parlare di televisione (al singolare) ha poco senso visto che non si tratta solo della distinzione tra una preistoria priva di ripetitori e un evo catodico, ma anche – e soprattutto – dell’avvento del colore e delle reti private con l’immancabile seguito di lustrini e paillettes, nani e ballerine, culi, tette, motteggi e gag. Allora è meglio dire televisioni (al plurale) e riferirsi alle filosofie esistenziali corrispondenti alle diverse forme di emittenza. E se da una parte c’è “mamma RAI”, la sobrietà in bianco e nero, lo scudo crociato, l’odore d’incenso, i programmi educativi, una certa missione culturale e la censura bacchettona, dall’altra ci sono le reti Fininvest, la tv commerciale d’inserzionisti, venditori di tappeti e consigli per gli acquisti, l’intrattenimento da telenovela, i corpi nudi, la comicità demenziale e l’incontenibile, smodata «voglia di piacere». Sessant’anni inquadrati dal piccolo schermo. Più di mezzo secolo in cui la trasformazione del corpo sociale non si consuma soltanto all’incrocio tra fabbriche e piazze, ma anche sui divani delle case e nei meandri del palinsesto televisivo. Sempre e comunque: davanti alla tv.

La battuta perfetta racconta questo mutamento (dai primi anni Sessanta ai giorni nostri) attraverso le vicende di tre generazioni d’una famiglia lucana: gli Spinato, simboli di un’umanità reietta, proveniente dall’abisso – per nulla metaforico – dei Sassi materani e in cerca d’una qualche “redenzione”. Nel romanzo la Storia s’intreccia alle immagini televisive in un insistente rimbalzo tra il boom economico e Gianburrasca, il Sessantotto e Giochi senza frontiere, il craxismo e Dinasty. E così la bomba in piazza Fontana viene percepita e registrata soltanto per i tre giorni di sospensione di Carosello in un assaggio di quella folle incoscienza destinata – dieci anni più tardi – a farsi misura di tutte le cose. D’Amicis glissa soltanto (e chissà se l’omissione è casuale) sulle urla di Alfredino Rampi dal pozzo di Vermicino. È una mancanza non da poco per un libro che elegge i trascorsi televisivi a osservatorio privilegiato sulle trasformazioni sociali. Ma forse, anche l’immaginazione narrativa incontra incubi non esprimibili.

Fedele ai canoni della saga familiare, lo scrittore costruisce il sottile gioco di riflessi tra un padre e un figlio, shakerando la ben nota miscela di analogie e differenze. Nella specularità della narrazione entrambi i personaggi votano le proprie vite alla televisione. Ambedue provano a riscattare – attraverso l’etere – l’antica appartenenza alle schiere dei “cafoni”. L’uno e l’altro assisteranno, infine, al frantumarsi dei propri sogni. Da queste premesse procede il succedersi d’insanabili contrapposizioni, perché se il professor Filippo Spinato detto Filo diventa un grigio funzionario della televisione di Stato, l’irrequieto Canio detto u diavelucchie è destinato a una funambolica carriera tra le spire del Biscione. Mentre il padre ostenta compostezza, solerzia, serietà e ipocrita moralismo da perfetto democristiano, il figlio elegge il vizio a unica, possibile forma di percezione e precipita in una vera e propria mania per la risata. Ma più d’ogni altra cosa a essere davvero inconciliabili sono le rispettive emittenze, perché alla Rai della retorica pedagogica e della tentata alfabetizzazione di massa si oppongono le reti Fininvest del piacere-a-tutti-i-costi, dell’erotismo collettivo e dell’erezione permanente.

Figlio di Canio e nipote di Filippo, Silvio (il nome ovviamente non è casuale) è l’ultimo degli Spinato. Cresciuto al tempo di Drive In davanti a uno schermo sempre acceso, ha finito per sviluppare una refrattarietà assoluta sia alla tv sia alle battute del padre. E infatti non è tanto nella polvere della caduta che va cercato il senso del fallimento di Canio, quanto nell’incapacità di far ridere il figlio. Per chi concepisce il ghigno come unica manifestazione d’amore, un viso atteggiato a imperturbabile maschera rappresenta la peggiore delle sconfitte. D’Amicis svela il rovescio occulto della risata, sovente riferita a una mistica dell’irriverenza e dell’insubordinazione, della critica del potere e della liberazione collettiva. Di tutto questo nel libro non c’è traccia. Piuttosto: sembra quasi che il celebre slogan del movimento libertario «Sarà una risata che vi seppellirà» si ribalti nella dittatura del fou rire, dell’euforia imposta, dell’ottimismo (tele)comandato e dell’homo ridens, «compulsivo, ineducato, lietamente beota». Si consolida così il dominio dell’allegra menzogna, dell’iperbole pagliaccesca e del travisamento sconcio: sulle ceneri di leggi ed etica, e nell’azzeramento d’ogni differenza tra giusto e ingiusto, lecito e illecito, bene e male, ironia e dileggio. Del resto, da tempo immemore, al Buffone tutto è permesso e chi ride sovente lo fa a occhi chiusi, assordato dai propri sghignazzi. A distanza di anni, viene quasi da pensare con affetto al venerabile Jorge de Il nome della rosa e al suo orrore per la risata.

L’allucinata confessione del giovane Canio, oltre a valere da chiave di lettura del romanzo, funge da manifesto di quel cambiamento che rovesciò l’Italia a cavallo tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta: «E come il drogato non fa distinzione tra eroina e metadone, appena avvertivo l’astinenza, tra sarcasmo, umorismo e beffa crudele non andavo più per il sottile: avevo solo disperatamente bisogno di quel suono – l’ideale un robusto ah ah che sgorghi dal cuore, un compito oh oh, un singolo eh che tradisce sorpresa e perfino il nevrotico ih (ih ih ih) di chi a ridere non è abituato».

In una perfetta corrispondenza con l’oggetto del proprio narrare D’Amicis precipita il lettore nella spirale d’una lingua scoppiettante e variopinta, modellata sul registro d’una comicità grottesca, spezzata da inserti dialettali e infarcita di calembour, allusioni e doppi sensi. Ma a ricoprire il ruolo principale nelle pieghe di questa messinscena parodistica che puzza tanto di realtà, ci sono le barzellette di cui Canio conosce tutti i segreti e che, nella scalata al successo, arriverà addirittura a suggerire al suo datore di lavoro: ovvero a Silvio Berlusconi.

Come se fosse un romanzo storico “dimezzato”, sospeso su un passato che è ancora troppo presente, La battuta perfetta intreccia realtà e finzione nell’incontro tra personaggi di fantasia e figure eccellenti. E tra quest’ultime – ovviamente – non poteva mancare il signore di Arcore. Rinunciando alla forza d’un punto di vista obliquo, lo scrittore si spinge fino all’azzardo, ritraendo l’intimità berlusconiana e provando a svolgerne la patologia narcisistica. Ci sia consentito esprimere qualche riserva sul fatto che la narrativa possa davvero fornire elementi di ulteriore comprensione rispetto a ciò che si manifesta nelle apparizioni del capo del Governo e nelle sue private perversioni ormai note alla pubblica opinione. L’accentuazione degli aspetti femminili nell’indole del Berlusconi letterario, ritratto come un simbolo della «bella fica [che] si fa maschio», immortalato in pose vagamente muliebri, smarrito in un fugace vagheggiamento delle faccende domestiche, definito «la fidanzata di tutti», suona come una costruzione intellettualistica e come un artificioso richiamo a taluni, vaghi motivi della psicoanalisi. La battuta perfetta imbocca così le collaudate parabole d’un finale alla Quentin Tarantino di Bastardi senza gloria di cui non è lecito dire troppo per non guastare la sorpresa. Basti sapere che il reale si smarrisce nel gioco d’una nemesi (im)probabile che sopraggiunge – ça va sans dire – tra le lenzuola di un «lettone».

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