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In bocca al lupo, Italia

di Vittorio Lussana

La diffusione delle pratiche sportive ha rappresentato un dato storico assai importante per l'Italia. Il calcio, in particolare, sin dagli anni del boom economico ha cominciato ad assumere un'importanza clamorosa: chiacchierato nei caffè, mitizzato dalla stampa, ammirato alla televisione, esso ha cominciato a ricoprire un ruolo fondamentale nella nostra vita quotidiana, in cui aspetti ludici e spettacolari si combinano con significati 'secondi' che, per mezzo del fenomeno del 'tifo', hanno sempre alluso a un bisogno di autoriconoscimento in altri campi inappagato. I rovesci della nostra rappresentativa nazionale, che sino ai campionati mondiali in Messico del 1970 non è mai riuscita a raggiungere traguardi proporzionati alle aspettative, sono stati compensati dai successi dei club delle grandi città industriali – Torino e Milano – che cominciarono ad affermarsi in Europa. Presieduta da un petroliere lombardo, Angelo Moratti, ma allenata da un singolare 'Cagliostro' ispano-argentino, Helenio Herrera, l'Internazionale di Milano ha incarnato al meglio il volto ambiguo della modernizzazione italiana: mentre la società veniva infatti amministrata con piglio schiettamente 'aziendalistico' e manageriale, la squadra rappresentava una sorta di 'armata Brancaleone' in cui convivevano indigeni e stranieri, come lo spagnolo Suarez e il brasiliano Da Costa, che si affidavano ai sortilegi negromantici e alle singolari tecniche di condizionamento psicologico predilette dall'allenatore. Tuttavia, attorno al calcio cominciarono anche ad accendersi discussioni che oltrepassavano la cronaca sportiva presa di per sé, abituando gli italiani a porsi delle questioni e a esprimere considerazioni sull'indole della propria identità più profonda. Subito prendemmo a dividerci in due fazioni: i sostenitori del giuoco d'attacco, capeggiati dai giornalisti Antonio Ghirelli e Gino Palumbo, i quali esprimevano la convinzione che il progresso economico ormai consentisse ai nostri calciatori di essere “come gli altri” e di battersi da pari a pari con qualsiasi avversario, contro i fautori del 'difensivismo' e del 'contropiede', in primo luogo Gianni Brera, autorevole redattore de 'Il Giorno' dal fraseggiare irto di reminiscenze 'gaddiane' il quale riteneva che agli 'italianucci', denutriti da secoli ed etnicamente compositi (liguri, celti, alpino-dinarici) non fosse permessa altra furberia se non quella del giuoco 'di rimessa'. Da una parte si son sempre schierati i partigiani un po' ingenui della modernità livellatrice e cosmopolita, dall'altra i pessimisti, gli epigoni di quel Guicciardini che era solito affermare: “Se ti fiderai delli italiani, sempre avrai delusione…”. La questione rimane sostanzialmente aperta ancora oggi nei termini di una chiara e precisa nostra identità nazionale: chi siamo, veramente, noi italiani? Siamo quelli che debbono sopperire con l'ingegno e la fantasia alla scarsa prestanza fisica, oppure siamo finalmente in grado, oggi, dopo decenni di trasformazioni sofferte, di essere al pari degli altri popoli e delle altre nazioni del mondo? A Marcello Lippi l'ardua sentenza. Svolgendo un ruolo di tramite fondamentale fra l'uso colto e letterario della lingua italiana e quello della cosiddetta 'lingua parlata', anche il giornalismo di 'casa nostra' ha le sue gravi responsabilità nel non riuscire a fornire una risposta culturale decente alla nostre storiche crisi di identità. In una società immobile ma multiforme come quella italiana, il numero di avvenimenti e di notizie degne di racconto aumenta a dismisura, ma la cosiddetta 'tirannia degli spazi' costringe da sempre il nostro mondo dell'informazione a una sorta di 'economia linguistica' che va dai prefissoidi adoperati come sostantivi (neuro, frigo) alle combinazioni asindetiche (legge-stralcio, udienza-fiume, notizia-bomba), dalle ellissi con caduta di preposizione (vertenza-FIAT, busta-paga, ufficio-immigrazione) alla nominalizzazione degli aggettivi (i preziosi, l'utilitaria, il direttivo, i mondiali), dalla soppressione del complemento oggetto (il terzino passa al centro) alla sostituzione della proposizione relativa con singolari participi-presente (aventi diritto, facenti funzione). Tali forme di brevità allusiva riguardano spesso, se non soprattutto, la titolazione degli articoli, in cui imperversano i participi irrelati (Ucciso dalla mafia), gli astrattismi deverbalizzati (Consulto a Bruxelles), la bipartizione in enunciati distinti (Tasse: il solito rinvio), l'accorciamento da sineddotiche (Washington rifiuta il dialogo), la caduta del verbo principale (L'Oscar a Roberto Benigni), l'infinito gnomico (Salvare Venezia), l'avverbio interiettivo (No all'autoritarismo), la falsa apposizione (Ivan Gotti vincitore inatteso). La concisione, dunque, nel nostro stravagante genere di giornalismo la si ottiene quasi esclusivamente tramite brutali 'potature' morfologiche. Le esigenze di condizionamento dei testi e di presentazione in forma dubitativa delle notizie richiedono una sintassi ormai quasi totalmente priva di regole, in cui la coordinazione per incidentali convive con l'ipotassi multipla, i costrutti nominali con i verbi fraseologici, i periodi uniproporzionali con congiuntivi retti dai “sembra” o dai “si ritiene”. In tutto questo 'casino' non manca, inoltre, un pesantissimo afflusso di forestierismi totalmente esogeni rispetto al contesto della società italiana: i blue-jeans, il copywryter, il ghost-wryter, il free lance sono abitudini, cose o professioni importate dalle società più evolute della nostra, che non erano previste nella lingua italiana, poiché non esistevano proprio nella realtà. Dunque, possono essere designate solo con termini stranieri di difficile comprensione, a parte i casi, a dir il vero assai poco numerosi, dei 'prestiti adattati', come ad esempio le parole: 'grattacielo' o 'editoriale'. La cronaca, infine, quella composta da omicidi, incidenti, processi, rapine e gare sportive, in genere rappresenta eventi che finiscono, alla fine, tutti col rassomigliarsi e che interessano la fascia di lettori maggiormente contagiata dalle attuali metodologie di comunicazione post-ideologica di massa. Di conseguenza, la via migliore per rappresentarli diviene quella di 'colorirli' con forme di aggettivazione enfatica (tragica fatalità, imprudenza criminale, barbaro delitto) e la maniera di stenderne il resoconto diviene quella di obbedire a uno schema 'fisso' (il colpevole, la vittima, il complice, i soccorritori) ad altissimo grado di fossilizzazione e di ripetitività. In sostanza, per mezzo dei giornali, in particolar modo dei giornali sportivi, la gente parla di più in italiano rispetto alle vecchie forme dialettali e idiomatiche di origine, ma lo parla sempre peggio. Com'è logico succeda a un amalgama linguistico che non viene governato in nessun modo e che procede per forme di 'agglutinazione cellulare' assolutamente spontanee e astratte, sottratte a qualsiasi forma di controllo culturale. In ogni caso, il vero momento-soglia della nostra storia calcistico-nazionale fu quello varcato nell'indimenticabile notte del 17 giugno 1970. L'Italia di Ferruccio Valcareggi era giunta in semifinale dei campionati del mondo in Messico dopo aver eliminato i padroni di casa. Ci attendeva, ora, la Germania, quella di Schnellinger, Muller e, soprattutto, di Franz Beckenbauer, uno dei più grandi 'liberi' della storia del calcio. L'Italia intera si pose innanzi ai televisori con la netta sensazione che stesse per succedere qualcosa. E infatti, dopo 11 minuti, una lunga fuga sulla fascia di Gigi Riva pose Roberto Boninsegna nelle condizioni di battere il 'portierone' tedesco Mayer. Era l'uno a zero: eravamo in vantaggio. Subito veemente fu la reazione dei tedeschi. I nostri si ritrovarono 'sotto assedio' e in netta difficoltà: eravamo ancora una volta lì, sul Piave, a difendere qual maledetto fiume di sangue da questi enormi mangiatori di patate. Burgnich si sacrificò per un'ora intera stando addosso a Gerard Muller, il centravanti tedesco; Facchetti non riusciva più a uscire sulla corsia di sinistra nello sforzo di contenere le 'folate' dei germanici; Domenghini, De Sisti e Mazzola si ritrovarono impegnati in un durissimo lavoro di disturbatori della manovra teutonica, che ormai ci accerchiava completamente. Resistemmo miracolosamente sino all'88esimo minuto, quando una specie di 'scivolata' di Scnhellinger, che stava quasi per essere sostituito da Overath, mise il pallone alle spalle di Albertosi. Si andò ai supplementari. Il regolamento di quell'epoca impediva le sostituzioni dopo il 90esimo minuto: chi c'era, c'era e chi non ce la faceva rimaneva a bordo campo, lasciando la propria squadra in inferiorità numerica. La battaglia ricominciò durissima e, dopo soli due minuti, la Germania passò in vantaggio. Ormai era finita: i 'crucchi' hanno sempre avuto più resistenza fisica di noi, non era più possibile ribaltare il risultato. Ma i tedeschi si erano 'sfiancati', avevano speso moltissimo durante l'assedio a cui ci avevano sottoposto nei tempi regolamentari. E Beckenbauer, a un certo punto, si infortunò e fu costretto a giocare con un braccio fasciato intorno al collo. Gigi Riva, un mancino 'riottoso' figlio di due operai metalmeccanici del 'varesotto', lo capì perfettamente, si diede alla fuga sulla sinistra, mise un pallone nell'area tedesca per Tarcisio Burgnich il quale, di testa, segnò il pareggio. Due a due: non era ancora detta l'ultima parola, carissimi tedeschi. Gli schemi tattici saltarono completamente. I tedeschi si arrabbiarono di brutto per essersi visti sfuggire la finale per l'iniziativa isolata di un'ala sinistra che militava nel piccolo Cagliari. E ci saltarono letteralmente addosso. Ma Cera, Rosato e Bertini resistettero, riuscirono a far filtrare un pallone all'ala destra dell'Atalanta, il giovane bergamasco Angelo Domenghini, il quale riuscì subito a lanciare Gigi Riva, il nostro 'rombo di tuono'. Ricordo quella rete come la forma più tenace e ostinata di un uomo nel cercare di raggiungere il proprio obiettivo: Riva si allargò sulla sinistra inseguito da tre avversari e, all'improvviso, tirò una 'castagna' in diagonale con quel suo sinistro micidiale, velenoso, cattivo, sul palo più lontano della porta di Mayer. Eravamo in vantaggio, ma stava accadendo qualcos'altro: stavamo vivendo un momento di orgoglio travolgente, all'improvviso ci scoprimmo tutti forti, orgogliosi, resistenti, coraggiosi, persino belli a vedersi. Finalmente, stava uscendo la parte migliore di noi. Ma i tedeschi erano fisicamente forti, mentre i nostri erano quasi tutti ormai bloccati dai crampi, poiché si stava giocando da più di due ore a 1.900 metri di altitudine nello stadio 'Azteca' di Città del Messico, la capitale più alta del mondo dopo La Paz. I germanici decisero di compiere lo sforzo estremo: non ci stavano a perdere con gli italiani, quelli del mandolino e degli spaghetti al pomodoro. E si fecero avanti, tempestandoci di traversoni. Netzer continuava a crossare palloni dalla sua fascia per Muller, il quale, nonostante i suoi quasi due metri di altezza, riuscì agilmente a conquistarne uno, a portarselo sul piede buono e a battere nuovamente Albertosi. La Germania ci aveva nuovamente raggiunto. Tuttavia, ormai non stava più in piedi, perché aveva dovuto mettere in campo il suo ultimo respiro. De Sisti e Bonisegna ripresero il gioco dopo un nuovo, ennesimo, calcio d'inizio. Mancavano solo due minuti, ma oramai c'era solo l'Italia in campo: tre passaggi precisi tra De Sisti, Boninsegna e Gigi Riva, un traversone rasoterra al centro, dove c'era rimasto il nostro 'abatino', Gianni Rivera, quel ragazzo 'genialoide' di Alessandria che, secondo Gianni Brera, non aveva la forza per resistere a due ore e mezza di 'guerra vera' in alta montagna. Il suo tocco fu preciso, un 'piatto' destro che mandò tutta la difesa tedesca, con una finta di corpo, dall'altra parte: rete. Fu la più grande, commovente, esaltante e giusta vittoria mai ottenuta da noialtri sui tedeschi, i nostri avversari di sempre, quelli che ci rompevano da secoli 'i coglioni' al di là dell'Adamello, quelli che da sempre erano più forti di noi, la razza 'eletta', i barbari che avevano distrutto l'Impero romano. E invece, questa volta li avevamo sconfitti pienamente, nel corso di una battaglia vera, durissima, addirittura cruenta. “E le truppe nemiche risalgono in disordine quelle stesse valli che, negli scorsi mesi, avevano disceso con baldanzosa sicurezza”. Ancora oggi c'è una targa d'argento in quello stadio di Città del Messico. La dicitura recita: 17 giugno 1970: Italia – Alemania = 4 – 3. Vencido y vencidor, siempre con honor.(Laici.it)

(editoriale tratto dal web magazine www.periodicoitaliano.it)

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