Un governo di lealtà  istituzionale per uscire dalla crisi

di Paolo Flores d’Arcais, il Fatto Quotidiano, 4 giugno 2010

Giovanni Sartori è il più illustre politologo italiano e l’unico di indiscussa statura internazionale (al top, anzi). Ed è anche un liberale coerente, ormai “rara avis”, anzi rarissima, nel “bel paese là dove ‘l sì suona”, e massime nel quotidiano dove Sartori scrive. Vale perciò discutere seriamente il suo ultimo editoriale sul Corriere della Sera, nel quale si domanda “Come reagirà il Paese quando la mannaia comincerà davvero a decapitare?”. Dove la mannaia è la manovra economica (a mio modo di vedere super iniqua) e il quando si riferisce al momento non lontano in cui i cittadini si accorgeranno che taglia loro pesantemente sia la borsa che la vita (la sanità). Sartori aveva pronosticato che il governo Berlusconi non sarebbe durato i cinque anni canonici. Ora, elegantemente, non maramaldeggia con quanti avevano giurato sul contrario (in primis gli editorialisti del Corriere!), e anzi, avanzando le due possibili reazioni popolari (“ragionevole, seppur dolentissima rassegnazione, oppure un crescendo di ribellismo”) si limita a un minimalistico “Beato chi lo sa”.

Ma poi passa a esaminare le “tre soluzioni” che “nelle emergenze prevede la dottrina” senza neppure considerare tra di esse un governo di Berlusconi. Le soluzioni sarebbero dunque, classicamente: “Primo, un governissimo, detto di solito governo di unità nazionale, un governo con tutti dentro. Secondo, una Grosse Koalition alla tedesca, un governo dei partiti maggiori… Infine, terzo, un governo tecnico (pur sempre sottoposto, s’intende, al controllo del Parlamento) i cui dicasteri sono affidati a tecnici invece che a politici di mestiere”. Conclusione di Sartori: “Il governo tecnico sarebbe probabilmente la formula più intelligente. E per ciò stesso la meno probabile”.

So bene che nel nostro mondo di opposizione civile la discussione su questo tema viene considerata di lana caprina: l’una soluzione vale l’altra, e comunque sceglieranno sempre persone pessime, vengano dalla “casta” o dai “poteri forti”. Cosa cambia per la democrazia italiana se al posto di Bondi e Alfano ci ritroviamo con Montezemolo e Geronzi, o Socci e Feltri invece di Gelmini e Carfagna, o la Marcegaglia in luogo di un Tremonti? In effetti, dalla padella nella brace.

Ma perché mai considerare che l’opposizione civile debba restare alla finestra, assistere passivamente a giochi più o meno torbidi ma tutti interni al Palazzo, e opachi nelle manovre che determineranno la prossima “soluzione”? Se si ritiene, prestando attenzione all’analisi di Sartori, che il governo Berlusconi potrebbe cadere, per l’effetto congiunto delle sue già presenti contraddizioni (vedi Fini) e del crescere dello scontento socio-economico, perché l’opposizione civile non dovrebbe avanzare una propria ipotesi per “uscire” dalla crisi, anziché limitarsi alla geremiade che se non è zuppa sarà pan bagnato?

Le elezioni anticipate sarebbero infatti la peggiore delle “soluzioni”, visto che si svolgerebbero in condizioni che definire inquinate sotto il profilo democratico è veramente il minimo. Se c’è chi controlla quasi totalitariamente la principale risorsa elettorale moderna, la comunicazione, siamo già in condizioni di competizione non-democratiche. E si tratterà perciò di ripristinarle, prima di andare ad un voto-farsa. Tanto più che nel frattempo potrebbe essere stata approvata la legge-golpe, e nulla sapremmo più (in attesa del Tribunale di Strasburgo) di corruzioni, grassazioni e altri crimini di quanti si (ri)candideranno a governarci, e chi non sa non può scegliere, come ammoniva un liberale che più moderato non si può, il primo presidente eletto della Repubblica, Luigi Einaudi.

Ecco perché continuo a insistere che le opposizioni coerenti dovrebbero fin da ora agitare l’obiettivo di un “governo di lealtà istituzionale”, che si differenzia dalla proposta di Giovanni Sartori solo perché entra nel merito, indicando il programma e le persone (non so perciò se si differenzi davvero: forse Sartori auspica programmi e persone non tanto diversi).

E cioè: il ripristino delle condizioni minime democratiche implica l’abrogazione di tutte le leggi che hanno messo in mora porzioni crescenti del potere autonomo della magistratura (con buona pace di Montesquieu e delle successive “balances of powers”), la liberazione dell’etere dal sequestro pluridecennale berlusconiano (vero e proprio “esproprio proprietario”), una legge elettorale – maggioritaria o proporzionale che sia – che si adatti però alla crisi italiana, evitando ogni strapotere di minoranza e riducendo quello di tutte le oligarchie partitocratiche rispetto agli elettori. Un governo, infine, che nell’anno di vita necessario per queste misure minime, realizzi quello che tutti dichiarano improcrastinabile: repressione spietata dell’evasione fiscale, autentica “macelleria sociale”. Quanto alle persone, un ex presidente di Corte costituzionale o un governatore della Banca d’Italia, e i nomi dell’eccellenza che l’Italia possiede nei vari campi, nomi da avanzare al momento delle lotte. In Parlamento e nelle piazze. Perché è evidente che un obiettivo del genere non lo si può ottenere, e neppure porre, se non attraverso la lotta. Ma se non crediamo che la lotta possa “pagare”, perché continuiamo a firmare appelli, scendere in piazza, indignarci e scrivere? Tanto varrebbe andare a cuccia e “non disturbare il manovratore”.

Se nel momento più alto del maggio ’68 le opposizioni a De Gaulle avessero unanimemente proposto un governo Mendes-France, molte cose sarebbero state diverse. La “soluzione” o la tragedia con cui si “uscirà” dalla crisi sarà perciò la risultante delle forze e delle lotte in campo, di cui anche gli attuali parlamentari subiranno l’influenza.

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