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La legge bavaglio degli untori

di Tommaso Crudeli

Maurizio Crozza, che insieme a Beppe Grillo e Marco Travaglio è ormai diventato uno degli intellettuali comico-giocosi di punta dell’opposizione, volendo dare pubblica testimonianza nella sua trasmissione della sua avversità al progetto di legge sulle intercettazioni ha detto: “Se questo progetto diventasse legge dovremmo comprare i giornali all’estero, perché quelli italiani avrebbero tutte le pagine bianche”. E giù tutti a ridere. Perfetto, la profondità del suo ragionamento comico-intellettuale non gli ha consentito di accorgersi che questa è proprio la tesi di chi è favorevole alla legge e che da tempo sostiene che i giornali sono diventati gli acritici uffici stampa delle procure. Intrigante la tesi dell’ideologo Crozza: niente ricerca delle notizie, niente verifica sulle fonti, niente inchieste giornalistiche, niente opinioni, niente commenti. Solo bollettini di arresti e trascrizioni di intercettazioni: ecco la nuova frontiera giornalistica che ci attende. I primi a contestarlo dovrebbero essere proprio i giornalisti, ma figurati, impegnati come sono a difendere la non venale libertà di espressione per Santoro, dove lo trovano il tempo? In questa gara al ragionamento acritico si è distinta ‘Repubblica’, che da qualche giorno fa precedere ogni articolo giudiziario con la specifica che in futuro non sarebbe più pubblicabile. In realtà, il progetto di legge non vieta la pubblicazione, ma ne differisce nel tempo la possibilità, non più durante l’indagine ma qualche mese dopo, durante il processo. Si noti che il differimento della pubblicazione non è relativa a quando avvengono i fatti, perché le indagini sono necessariamente successive, spesso anche di anni, al loro accadimento. Il differimento, quindi, si riferisce solo alla discrezionale volontà di chi queste notizie le detiene, generalmente la procura. Il progetto di legge intende quindi solo riportare il termine alla fase in cui le parti sono tutelate da una parità che è disciplinata dai codici di rito. E poiché in questo caso sono in contrasto due diritti costituzionalmente tutelati, quello all’informazione e quello della segretezza delle comunicazioni, è opportuno fare un comparazione sulle conseguenze di ciascuno. La domanda è: quale danno crea all’opinione pubblica venire a conoscenza di fatti con qualche mese (tanto devono durare le indagini) di ritardo? La risposta è semplice: nessuno. Qual è il danno per un cittadino che non si può difendere per delle informazioni divulgate che lo riguardano? Enorme. La storia del costituzionalismo liberale insegna che il processo diviene pubblico proprio per questo, perché la pubblicità del processo è la garanzia per il cittadino, non più suddito, che il potere non abusi su di lui e che il diritto alla difesa sia garantito. Divulgare sui media stralci di informazioni propalate dall’accusa nella fase non pubblica delle indagini, in cui non esiste difesa, né informazione, per il cittadino indagato è l’esatto opposto: azzera la difesa e rende depotenziato il processo. In buona sostanza, si tratta di comportamenti che hanno in spregio l’individuo e la sua sacralità. Ciò avviene oggi in Italia senza che ne sia avvertita la brutalità, essenzialmente perché il nostro non è Paese di individui, ma di categorie: editori, giornalisti, magistrati, imprenditori, dipendenti pubblici. E la categoria degli indagati e degli imputati non esiste, non ha diritti, nessuno la difende e, soprattutto, può solo subire.(Laici.it)

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