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Chi parla male vive male. Linguaggio e “questione morale” nell’Italia degli ultimi trent’anni

di Tommaso De Lorenzis

Antonio Pascale è uno scrittore inclassificabile. Cucirgli addosso una definizione si rivela uno sforzo inutile. Dalla pubblicazione de La città distratta in avanti è stato tutto: romanziere nelle pagine di S’è fatta ora, saggista con il competente argomentare di Scienza e sentimento e ancora una volta esploratore della provincia casertana in Ritorno alla città distratta, monumentale approfondimento-sequel del libro d’esordio. Dell’uso di chiavi narrative molteplici ha fatto una precisa scelta poetica. Il rigore espositivo è la sua firma. Sovente ha mischiato le carte, intrecciando reportage in presa diretta e memorie autobiografiche, ragionamento analitico e uso delle fonti orali. «Si dice che» e «Ci sono quei casertani che» sono le locuzioni con cui ha filtrato gli elementi popolari, trasformando le voci della strada in fonti d’una narrazione impeccabile.

Se nell’Italia di oggi l’etichetta d’“intellettuale” non richiamasse la cialtroneria degli opinionisti da salotto televisivo, Pascale sarebbe semplicemente un intellettuale. E anche di razza. Tuttavia la parola in questione non basta più e così lo scrittore stesso si fa carico d’una significativa precisazione. Lo fa nell’introduzione a Questo è il paese che non amo, pubblicato di recente da minimum fax, coniando una formula che non lascia spazio a dubbi: «L’intellettuale di servizio è dunque un cittadino (più o meno indignato) che ha voglia di trasformare un sentimento poco nobile come la rabbia in una metodologia conoscitiva: ovvero è attento ai dati, alle misure, all’uso degli aggettivi».

Fedele a questo proposito culturale, con una prosa circostanziata e mai verbosa, Pascale narra trent’anni di storia italiana: dalla rottura antropologica degli Eighties al livido tramonto degli anni Zero. Si tratta del periodo di cui hanno scritto Enrico Deaglio e Andrea Gentile in Patria 1978-2008, brillante esempio di storiografia informale che – attraverso l’accostamento di fulminanti istantanee – centrifuga costume e spettacolo, musica e letteratura, epocali svolte politiche e grandi fatti di cronaca. Pascale esplicita, sul piano del metodo, gli orientamenti di Deaglio e sceglie la «questione stilistica» come lente per leggere lo stesso passato.

«Come abbiamo raccontato quello che abbiamo raccontato?», si chiede lo scrittore. «Male, con colpevole ambiguità, scarsa attenzione e pessimi ammiccamenti retorici», potremmo rispondere. Ed ecco spiegato il sottotitolo che recita «Trent’anni nell’Italia senza stile». Sono i tre decenni durante i quali si sono smarrite le coordinate della rappresentazione del dolore, sono state infrante le regole delle narrazioni e sono saltate perfino le norme elementari che, in una democrazia, dovrebbero regolare il confronto tra opinioni diverse.

Questo è il paese che non amo racconta l’ascesa, nei primi anni Ottanta, d’una classe spaccona e vanitosa, ottimista, sorridente e dalla barzelletta facile. Ripercorre l’avvento del capitalismo finanziario e misura la profondità d’una voragine chiamata debito pubblico. Restituisce le altalenanti vicende politiche dei Novanta e si sofferma su casi dal forte appeal mediatico come l’affaire Di Bella. Infine precipita nell’abisso dell’ultimo decennio, scivolando nelle pieghe delle crociate clericali e dell’enfasi progressista. Ma lo scrittore non si limita alla precisione dei documenti. Nemmeno s’accontenta dell’originalità del punto di vista, benché negli inserti autobiografici – a base di prospettive casertane e scorci romani – risuoni la ben nota capacità di elevare il ricordo personale a presupposto dell’argomentazione. Piuttosto: sottopone a disamina critica i linguaggi prodotti da questi eventi e le parole impiegate per raccontarli. Così, i softporno delle prime televisioni private vengono indagati in relazione al formarsi di quelle immagini fantasmagoriche, consacrate dalla tv di Drive In, che accompagnarono l’avvento del capitalismo immateriale. E La vita è bella di Roberto Benigni suscita inquietanti dubbi sull’opportunità di rendere tollerabile la rappresentazione dell’orrore.

Spaziando dal cinema alla televisione, dalla letteratura al giornalismo, Pascale passa in rassegna i vizi del linguaggio e la sostanziale immoralità che li alimenta. La stessa vicenda di Eluana Englaro è considerata a partire da quella strategia di comunicazione tesa a cancellare ogni distinguo e a supportare l’espansione invasiva del «corpo mistico», grande utero nel quale «si fluttua per grazia ricevuta, tutt’insieme», al di là della possibilità di operare una scelta. Lascia sbigottiti il minuzioso elenco di ricatti emotivi, irresponsabili omissioni e rozze metafore poetiche che supportarono quella furia propagandistica. La trascrizione dell’intervento radiofonico durante il quale Paolo Sorbi, presidente del Movimento per la Vita di Milano, si rivolge a Giuseppe Englaro, vale da termine ultimo d’un climax che manifesta la pericolosità del linguaggio volto alla manipolazione dei sentimenti: «Peppì, ma quante volte fai ’sti ricorsi? […] Se l’embrione è una persona umana e Eluana come te siete due postembrioni ma perché devi uccidere Eluana… Ma te la tengono le suore, te la tenimm’noi, non la vuoi vedere più? E non la vedere più…».

Questo è il paese che non amo è una sistematica denuncia delle immagini lacrimose e degli ammiccamenti allusivi, degli eccessi d’immaginazione e delle metafore consunte, delle zoomate morbose e delle parole ambigue. Forse – si potrebbe aggiungere – perfino dell’uso di simboli e miti nel tessuto delle narrazioni. Non a caso lo scrittore richiama due strumenti conoscitivi (il procedimento giudiziario e il metodo sperimentale) fondati sulla stringente verifica delle ipotesi e l’accorto vaglio delle asserzioni. Tuttavia, varrebbe la pena misurare questa riflessione, combinata a una palese sfiducia nel concetto di creatività, con i molteplici aspetti della finzione: ad esempio con le inclinazioni della narrativa popolare, le grammatiche dei generi letterari e l’uso romanzesco della Storia. Non va dimenticato, infatti, come – in un recente passato – proprio queste forme di racconto, agitate da una vigorosa tensione mitica, segnate dal continuo ritorno dei cliché e condite da contesti esotici o remoti slittamenti temporali, abbiano svolto un insostituibile ruolo di supplenza nei riguardi d’un giornalismo accomodante e di una storiografia dimentica e omertosa.

Antonio Pascale ha il merito di aver indicato il problema della lingua come parte fondamentale della “questione morale” e come ineludibile presupposto per discernere la democrazia dal populismo e la partecipazione dall’esibizione. Del resto, come diceva Nanni Moretti, «Chi parla male, pensa male e vive male. Bisogna trovare le parole giuste: le parole sono importanti».

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