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Ci hanno portato via anche la vergogna

Si intitola “Senza vergogna” il nuovo saggio di Marco Belpoliti appena pubblicato da Guanda. Scritto come un racconto, è un’indagine a tutto campo sulla vergogna nell’attuale società. Il libro conduce il lettore dal carcere iracheno di Abu Ghraib, alle camerette degli hikikomori a Tokyo, alla Città del Capo di J. M. Coetzee, alla New York di Andy Warhol, alla Londra multietnica di Salman Rushdie, alla Las Vegas del porno di David Foster Wallace.di Marco Belpoliti, da “La Stampa”, 28 aprile 2010

Il tempo della vergogna è forse finito? Non passa giorno che uomini politici, affaristi, immobiliaristi, costruttori edili, banchieri, attrici, alti funzionari dello Stato vengano sbugiardati nelle loro affermazioni, messi alla berlina, esposti al pubblico ludibrio, senza che nessuno debba pentirsi di ciò che ha detto o fatto, rassegnare le dimissioni, ritirarsi a vita privata, o chiedere semplicemente scusa. Tutto resta eguale, come se quel sentimento, che per Brunetto Latini era «passione d’animo, e non è virtude», non li pervadesse, sino a spingerli a gesti estremi. Dal Giappone giunge invece la notizia che il conduttore di un treno superveloce, in ritardo di cinque minuti, si è tolto la vita per l’onta. Un gesto eccessivo, probabilmente, ma perfettamente simmetrico a quello che ha invaso la società italiana negli ultimi vent’anni.

La vergogna, sostengono gli psicologi, è un’emozione intrinsecamente sociale e relazionale: si prova davanti a un pubblico più o meno virtuale che ci guarda, ci biasima, ci giudica; ma al tempo stesso la vergogna appare una emozione «focale», cioè selettiva, per cui ci colpisce solo se abbiamo una disposizione a esserne toccati. Per una persona la contestazione d’eccesso di velocità da parte di una pattuglia di vigili urbani è fonte d’indubbia vergogna, per altri è solo una scocciatura. Naturalmente tutto questo dipende dal giudizio che la società in cui si vive attribuisce a quell’infrazione. Se la nostra società non reputa il peculato, l’interesse privato in atto pubblico, il clientelismo, l’affarismo, il conflitto d’interessi, la prostituzione atti morali riprovevoli, allora è evidente che i singoli che v’incorrono difficilmente proveranno vergogna.

Forse per capire se è scomparsa la vergogna nella società italiana basta fare un piccolo esperimento: per quale ragione abbiamo un’immagine negativa di noi stessi? Probabilmente la maggioranza risponderebbe: per la vergogna di non aver successo, di non essere notati, per la terribile vergogna d’essere nessuno. Vige oggi una vergogna di tipo amorale, emozione e sentimento di superficie che non intacca l’immagine profonda di sé. «Il tempo delle figure di merda è finito», dice un amico, rivolto al protagonista del romanzo di Nicolò Ammaniti Che la festa cominci. La frase coglie nel segno e indica il rovesciamento anche di un codice morale. Ma come siamo arrivati a questo? Forse perché le istituzioni deputate ad ammaestrare i singoli circa le norme e i comportamenti sociali, ovvero la scuola, la Chiesa, i partiti tradizionali, i sindacati, sono andate tutte in crisi? Probabilmente sì. Tuttavia il problema è: perché è accaduto?

In un celebre saggio, di cui in questi mesi si è celebrato il trentennale della pubblicazione, La cultura del narcisismo, lo storico americano Christopher Lash metteva in luce il rapporto esistente tra l’affermazione del narcisismo e il dominio delle immagini nell’ambito della vita individuale e collettiva. Viviamo, scriveva, in una sorta di vortice d’immagini e di risonanze che arrestano l’esperienza e la riproducono al rallentatore. In quel periodo, anni 70, si erano diffuse le piccole fotocamere, ma anche i registratori portatili e altri riproduttori, così la vita americana appariva una immensa camera dell’eco, una sala degli specchi. La stessa crescita della televisione rendeva il fenomeno ancora più pervasivo, così che oggi la nostra vita quotidiana è a tal punto mediata dalle immagini elettroniche che nessuno risponde più delle proprie azioni, presi come siamo da questa continua esibizione di noi stessi, e insieme degli altri.

Siamo sempre davanti a una «camera», come scriveva già negli anni 60 Thomas Pynchon, per cui il nostro atteggiamento è quello dello «Smile!». Il sorriso è sempre stampato sul nostro viso, e tutti conoscono perfettamente l’angolazione fotografica, o televisiva, con cui mettere in luce il lato migliore del proprio viso. Andy Warhol, con la sua arte, è stato uno dei profeti più acuti di tutto questo.

La civiltà dell’immagine ha dunque divorato la vergogna? Probabilmente sì. Come scriveva negli anni 50 Günther Anders, il filosofo tedesco riparato in America durante la guerra, la televisione ha la capacità di defraudarci dell’esperienza e della capacità di prendere posizione. Certo, grazie al video il nostro orizzonte si allarga a dismisura, ma solo attraverso le immagini. Con formula icastica il filosofo, che era stato operaio alla Ford e uomo delle pulizie a Hollywood, affermava che chi consuma nella propria stanza ben riscaldata l’immagine di un’esplosione nucleare fornita a domicilio è defraudato della capacità di concepire la cosa stessa, le sue conseguenze concrete, e dunque di prendere posizione.

La moralità è legata strettamente a esperienze dirette che nell’ambito della vita quotidiana vengono sempre più a mancare, con il loro corollario di giudizio che inevitabilmente vi si forma. La barriera del pudore si è abbassata, e non solo quella del pudore sessuale, ma anche del pudore legato allo scambio delle merci. Il sesso stesso, grazie alla pornografia, è sempre più una merce, separato dalla sfera dei sentimenti, e quindi anche dalla vergogna stessa, o almeno quella cosiddetta morale; le merci si sessualizzano grazie alla pubblicità.

La vergogna amorale appare legata non già a norme, bensì a modelli di consumo, a etichette sociali, in particolare al potere personale. La psiche individuale e collettiva reca non i segni della vergogna, bensì quelli di un transitorio senso d’imbarazzo. Chi nel romanzo di Ammaniti pronuncia la frase sulla «figura», un chirurgo, si siede, accende una sigaretta e aggiunge: «Si è estinta come le lucciole». Con buona pace di Pasolini e della sua mutazione antropologica.

SENZA VERGOGNA

di Marco Belpoliti, da nazioneindiana.com

La vergogna non c’è più. Quel sentimento che ci suggeriva di provare un turbamento, oppure un senso d’indegnità di fronte alle conseguenze di una nostra frase o azione, che c’induceva a chinare il capo, abbassare gli occhi, evitare lo sguardo dell’altro, di farci piccoli e timorosi, sembra scomparso.

Ho in mente un passo della Tregua di Primo Levi, proprio all’inizio del libro, dove i giovani soldati russi arrivano in vista del Lager, e dall’alto dei loro cavalli osservano lo spettacolo che si offre ai loro sguardi di vincitori: “Non salutavano, non sorridevano; apparivano oppressi, oltre che da pietà, da un confuso ritegno, che sigillava le loro bocche, e avvinceva i loro occhi allo scenario funereo. Era la stessa vergogna a noi ben nota”.

Levi spiega che la vergogna è il sentimento che lui e i suoi compagni provano dopo le selezioni, oppure ogni volta che assistono ad un oltraggio: la vergogna sentita dal giusto “davanti alla colpa commessa da altrui, e gli rimorde che esista, che sia stata introdotta irrevocabilmente nel mondo delle cose che esistono, e che la sua volontà buona sia stata nulla o scarsa, e non abbia valso a difesa”.

Da qualche tempo mi domando perché si sia perduto questo sentimento così forte, essenziale, e insieme terribile, come mai abbiamo perso questo guardiano o, come dicono gli psicologi, questo strumento essenziale per la salvaguardia di sé. Oggi la vergogna, ma anche il pudore, non costituisce più un freno al trionfo dell’esibizionismo, al voyeurismo, sia tra la gente comune come nelle classi dirigenti. La perdita di valore della vergogna corrisponde alla idealizzazione del banale e dell’insignificante. Lo sguardo ammirato di molti si rivolge non più a persone di rilievo morale o intellettuale, bensì a uomini e donne modesti, anonimi, assolutamente identici all’uomo della strada o alla donna della porta accanto. Un tratto che evidenzia il processo di omologazione in corso nelle società fondate sulla democrazia dei consumi. La vergogna è forse il sentimento proprio di altre epoche dell’umanità, quando il bisogno di esserci, o meglio, di essere visti, e di vedere tutto, sempre e comunque, non era così significativo e rilevante come oggi ?

La vergogna, ci raccontano gli psicoanalisti, è diventata un tabù. O meglio, si è trasformata in vergogna-di-non-aver-successo, di non essere notati: la terribile vergogna d’essere nessuno. Ha scritto uno psicologo che la nostra vergogna contemporanea consiste nel sentimento del fallimento della propria esibizione. Ci si vergogna di vergognarsi, poiché questo richiama l’attenzione di tutti sull’unica cosa che si vuole nascondere: l’insuccesso. Non è più vero come nel passato che la vergogna costituiva comunque un valore, e designava ciò che distingue l’essere umano dagli animali. La vergogna della società contemporanea è una “vergogna sulla pelle” o, come dicono gli psicologi, una “vergogna amorale”.

Alla fine del Processo K., mentre viene sgozzato dai signori in nero che lo hanno prelevato nel suo appartamento, fa in tempo a dire di sé: “Come un cane!”; e mentre muore prova la sensazione che la vergogna gli debba sopravvivere. La vergogna è davvero morta con K.
Nessuno si vergogna del conformismo che sembra dominare la nostra società attuale, così come non ci si accorge che l’etica del successo, motore del processo d’omologazione, è connessa con la grande frequenza di disturbi dell’identità e delle patologie del Sé. Nelle scuole gli insegnanti, prime vittime di questo sistema, si meravigliano della timidezza dei loro allievi e non al contrario della loro sfrontatezza. Tutti noi oggi siamo spinti a essere attivi, a “fare”, come se la produttività fosse il segno di una vitalità sana, e non invece il contrario. Il bisogno di stare soli con se stessi, di non comunicare, di non fare, di non scambiare messaggi, sembra appartenere ad una patologia individuale piuttosto che a una sana esigenza di vivere nei limiti del proprio possibile; e questo là dove invece tutti chiedono l’impossibile.

In un passo di un recente libro Giorgio Agamben riflette su due espressioni dell’uomo odierno che ci sentiamo ripetere ogni giorno dovunque: “Non c’è problema”; oppure: “Si può fare”. Il non-fare, scrive Agamben, è invece la garanzia stessa del fare: “Colui che è separato da ciò che può fare, può, tuttavia, ancora resistere, può ancora non fare. Colui che è separato dalla propria impotenza perde invece, innanzitutto, la capacità di resistere”.

La capacità di resistere, ecco cosa stiamo perdendo. Tutti si chiedono: cosa dobbiamo fare in questa situazione? La domanda andrebbe rovesciata: cosa dobbiamo non fare?
Nessuno meglio di Andy Warhol ha saputo raccontare questa società senza pudore e senza vergogna, una società in cui “ogni desiderio trascendente si è ritirato, lasciando il posto solamente all’immanenza dell’immagine”, come ha scritto Jean Baudrillard. Le opere di Warhol sono la meravigliosa rappresentazione della nostra condizione, proprio per questo ci attraggono, ci ammaliano: le guardiamo incantati e stupiti di trovare sulla loro superficie la forza scintillante del Nulla.

Il Nulla è la musa inquietante del nostro tempo.
Ha affermato Warhol in uno dei suoi libri: “Sono certo che guardandomi allo specchio non vedrò nulla. La gente dice sempre che sono uno specchio, e se uno specchio si guarda allo specchio cosa può trovarci?”. E più avanti: “Alcuni critici hanno detto che sono il Nulla In Persona e questo non ha aiutato per niente il mio senso dell’esistenza. Poi mi sono reso conto che la mia stessa esistenza non è nulla e mi sono sentito meglio. Ma ora sono ancora ossessionato dall’idea di guardarmi allo specchio e di non vedere nessuno, niente”.

Warhol rappresenta il Nulla e insieme la sua aura. Sembra un paradosso, ma non lo è: egli non ha abolito la forza dell’aura, la fascinazione e la magia aleggiano intorno alla sua arte. Ha potenziato l’aura. Scrive: “Alcune aziende erano recentemente interessate all’acquisto della mia “aura”. Non volevano i miei prodotti. Continuavano a dirmi: “Vogliamo la tua aura” (…) Penso che l’aura sia qualcosa che gli altri possono vedere, e ne vedono solo quel tanto che vogliono vedere. Sta solo negli occhi degli altri”.

Come ha osservato un critico in modo icastico il potere dell’aura dell’artista americano risiede nel fatto che “egli non è solo un divo fra i divi, ma anche fan tra in fan”. È al tempo stesso attore e spettatore, voyeur ed esibizionista. Questa è la forma contemporanea dello spettacolo che ha cancellato il senso della vergogna.

E questa è anche la forma del potere politico esercitato oggi in Italia da Silvio Berlusconi, perfetto personaggio warholiano, incarnazione dell’estrema insignificanza, quella che, per parafrasare Baudrillard, fa il vuoto intorno a sé, e verso la quale tutti i desideri sono irrefrenabilmente attratti. “Questa insignificanza – aggiunge il filosofo – non è tanto facile. Nello spazio vuoto del desiderio i posti sono cari”.

L’artista contemporaneo non coincide più con la sua opera, ma si situa all’incrocio tra l’aura che promana e le aspettative del pubblico, ovvero coincide con la sua stessa commercializzazione. Più è commerciale, più ha successo; e più ha successo, più è commerciale. A metà degli anni Settanta, anticipando quel decennio di sterminio del senso che sono stati gli anni Ottanta, Warhol poteva scrivere: “Oggigiorno sei considerato se anche sei un imbroglione. Puoi scrivere libri, andare alla TV, concedere interviste: sei una grande celebrità e nessuno ti disprezza anche se sei un imbroglione. Sei sempre una star. Questo avviene perché la gente ha bisogno delle star più di ogni altra cosa”.

Guardo le fotografie della festa di compleanno a Casoria – Noemi, i genitori di Noemi, il Presidente del Consiglio, gli amici di Noemi, i camerieri e i cuochi del ristorante. Sembrano uscite da un libro fotografico di Andy Warhol, oppure estratte or ora da una delle casse dove l’artista americano custodiva tutti i ritagli, i biglietti, le cartoline, le annotazioni, le cianfrusaglie, tutto ciò che la sua vita sfiorava. Sono immagini insignificanti, come i pezzi del reale che portiamo in tasca, scontrini del supermercato, biglietti del tram, liste della spesa, ricevute, ritagli; tutte cose che finiscono nel cestino della carta. Sono immagini pronte per la nuova edizione di Cafonal, l’album warholiano confezionato da Roberto D’Agostino.

Costituiscono il racconto di una inespressività meticolosa, la suprema volontà di insignificanza, quella volontà, lo ha notato Baudrillard a proposito dell’opera di Warhol, che è la vera versione contemporanea della volontà di potenza. È con questa volontà che ora dobbiamo fare i conti, con la sua “pretesa minima dell’essere, la strategia minima dei fini e dei mezzi”.

L’unica cosa che noi possediamo è la capacità di formulare giudizi. Provare a giudicare ciò che con costanza cerca di sottrarsi al nostro giudizio, ciò che cerca di condurci nel campo degli “stati d’animo”, d’appenderci all’istante eterno, senza passato e senza futuro. Come aveva capito Warhol tutto in America, e ora in Italia, comincia e finisce con gli stati d’animo.

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