Il carcere reclama sacrifici umani, lo fa con inusitata violenza, senza andare troppo per il sottile, in fin dei conti parliamo di materiali difettati, di prodotti cancerogeni, di merce da smaltire in fretta senza fare rumore.
Sul carcere non è consentito affermare un bel niente davanti al collasso della giustizia che dovrebbe sostenere il diritto all’equità e alla dignità di una pena da scontare non solamente come castigo fine a se stesso, bensì per ritornare a essere uomini che possono rientrare in seno alla collettività.
Dall’inizio dell’anno uno, cinque, dieci, venti corpi avvelenati dall’incuria, con gli occhi spalancati e resi ciechi dal dolore della solitudine.
In alcuni istituti monta una follia ingannevolmente liberatoria, si prendono e si danno botte, si sequestrano gli uomini e si disperdono le dignità, all’irresponsabile fragilità del disagio che genera violenza, e che chiaramente non consente giustificazione, si risponde con l’esemplarità dell’ulteriore punizione, eppure manca quella sicurezza e quella pietà che rendono umane le sconfitte più tragiche.
Ancora una volta è consigliabile pensare alla galera non come a un contenitore per incapacitare ed espellere definitivamente dal contesto sociale, perché in carcere si va, ma prima o poi si esce, e allora bisognerebbe evitare la pratica dell’induzione a diventare peggiori di quando si entra, per tentare di vincere, da una parte, quell’infantilizzazione galoppante che partorisce tanti uomini bambini, e dall’altra, quella subcultura criminale che trasforma il poveraccio in un uomo bomba.
Quei ragazzi appesi a una corda e quegli uomini in procinto di rifare nuovamente del male a se stessi e agli altri, sono il risultato del carcere che non cambia, che, se non può cambiare, neppure intendiamo migliorarlo.
Nonostante i segnali d’allarme di quei fastidiosi lamenti, ci limitiamo a osservare il carcere, come se fosse sufficiente a stabilirne le utilità e gli scopi (mai raggiunti), mentre per riappropriarsi delle proprie funzioni di castigo e recupero, esso avrebbe bisogno dello sviluppo di teorie e pratiche interne alla pena, e alternative ad essa.
Avrebbe bisogno di una decongestione sistemica del sovraffollamento, della carenza di personale e di fondi, ma sarebbe ingenuo non affiancare a questi problemi endemici, un ripensamento culturale, che sottolinei il valore umano della pena, perché in carcere si va perché puniti, e non per essere puniti.
Finchè il carcere sarà inteso come un momento fermato per sempre, esso rappresenterà una fotografia, un’immagine che non svela la vera essenza-assenza di ciò che vi è ritratto. Ecco perché nelle tante parole-valigia che si sprecano sul mondo penitenziario, più che altro per farci stare “dentro” tutto e più di tutto, esse non ci permettono di vedere il tutto nella sua complessità.
Non si prende in considerazione l’opportunità di pensare che occorre rivedere qualcosa, che manca qualcosa. L’antidoto non può essere sintetizzato nella sola richiesta di più operatori, piuttosto nella consapevolezza che è in atto un plagio fisiologico operato da chi vuole mantenere il carcere nella sua inutilità e antitesi a ogni riabilitazione, nell’indifferenza che cancella ogni forma di prevenzione e dunque di interesse collettivo.
Forse occorrerebbe un po’ di sbalordimento, affinché non ci sentiamo rassicurati e lontani dagli accidenti, relegando all’interno di una prigione tutte le nostre contraddizioni, come se tutto acquistasse un equilibrio normale, dove il calcolo, la corrispondenza e il tornaconto giocano decisamente a discapito di chiunque, innocenti e colpevoli.